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    L’orologiaio: l’intelligenza artificiale

    Mercoledì 27 dicembre 2022 Buongiorno ragazzi qui l'Orologiaio, vi scrivo questa e-mail dopo un periodo di ricovero forzato in ospedale grazie per i messaggi che mi avete mandato, non avete idea del circo che c'è qui dentro sono tre giorni di fila che ho la processione dei parenti in casa. L'unica cosa positiva è che non dovrò cucinare per almeno un mese comunque è tutto a posto ho avuto s... Altro...
    Mercoledì 27 dicembre 2022 Buongiorno ragazzi qui l'Orologiaio, vi scrivo questa e-mail dopo un periodo di ricovero forzato in ospedale grazie per i messaggi che mi avete mandato, non avete idea del circo che c'è qui dentro sono tre giorni di fila che ho la processione dei parenti in casa. L'unica cosa positiva è che non dovrò cucinare per almeno un mese comunque è tutto a posto ho avuto solo un forte calo a causa del troppo lavoro, l'ho sempre detto questo mondo è fatto per i ricchi chi nasce come noi comuni mortali, è fortunato ad arrivare alla pensione se nel mentre non ci lascia le penne. Anche durante il ricovero il pensiero andava alla mole di carta impilata sulla scrivania, fortuna che avevo con me la borsa con le mie cose almeno non mi sono annoiato. L'infermiera che si occupava di me non perdeva occasione per propormi l'ennesima rivista di gossip, aggiornandomi sugli ultimi pettegolezzi come se si trattasse del prossimo premio nobel cosa che trovavo molto divertente più o meno le giornate sono passate senza problemi, ripensando al motivo per il quale mi sono trovato li avrei dovuto saperlo, era solo questione di tempo da un po' di giorni mi sentivo strano tant'è che pensavo si trattasse di banale influenza, finché non sono svenuto davanti al locale dove ero andato per una cena di lavoro. Ragazzi non so descrivervi come mi sono sentito in ospedale, i dottori devono avermi dato qualche cocktail di quelli belli forti ho dormito per due giorni di fila al mio risveglio ero spaventato, disorientato e anche un po' incazzato perché nessuno mi diceva nulla, alla fine mi son pure sentito dire che sono un testone, per i dottori non dovevo affaticarmi ma solo rimanere a letto per rimettermi in forze, in pratica ho avuto un collasso è come se il mio corpo, avesse deciso in quel momento di mettermi a nanna ho davvero temuto per la mia vita. Devo ammettere però che da allora sono più calmo, quella piccola vacanza in ospedale mi ci voleva proprio anche se avrei evitato, come se non bastasse in quei giorni il mio Editor è passato a trovarmi non per sapere della mia condizione, non ha smesso un giorno  di assillarmi credo sia il momento o di cambiare casa editrice o di licenziarlo e di assumerne un altro. In questo settore so molto bene come funziona, escono di continuo nuovi talenti letterari ed è faticoso stare al loro passo, però scusatemi se ne parlo; venire in ospedale con me completamente assuefatto dai farmaci per dirmi che il mio libro fino a meno di una settimana fa best seller citato anche dal NYT, era sceso al terzo posto a causa del secondo libro scritto da un tiktoker o una roba del genere, chiedendomi per giunta, se avessi bisogno di una mano per continuare il ciclo narrativo. Voleva in pratica far proseguire il mio lavoro ad un'altra persona perché io ero in ospedale il bastardo, allora gli ho risposto che piuttosto avrei preferito bruciare tutto, alche infastidito è andato via per poi tornare alla carica il giorno dopo con un'idea fantastica a suo dire, mi ha messo davanti il tablet e scaricato una roba per scrivere testi automatizzata per darmi una mano con il libro, ma vi rendete conto? Non so nemmeno come descrivere ciò che ho provato in quei minuti, mentre lui andava decantando questo nuovo strumento che adesso tutti, ma proprio tutti stanno usando non solo in campo commerciale, ma anche nel settore creativo, artistico e letterario, io ero li che facevo finta di ascoltarlo mentre fantasticavo su quale oggetto lanciargli contro per primo, al solo scopo di farlo tacere su quella marea di stronzate che andava blaterando. Alla fine dopo dieci minuti di sproloquio ho fatto un bel respiro profondo, e ispirandomi ad uno dei miei tanti personaggi ho fatto una cosa che mai mi sarei sognato di fare, ho atteso che lui finisse e quando mi ha chiesto cosa ne pensassi della sua strabiliante idea, ho aspettato un paio di minuti come per dargli importanza, e subito dopo ho usato il pulsante rosso per far intervenire i medici, quando sono arrivati non ho dovuto far altro che dire loro che stavo per sentirmi poco bene, non appena lo hanno visto nella mia stanza non ho dovuto aggiungere altro, tutti nel reparto lo avevano già avvertito di non stressarmi e il dottore lo ha buttato fuori. Voi forse pensate che l'ha capito, e invece no visto la quantità di messaggi che mi ha continuato a lasciarmi in segreteria, dopo questa disavventura ho contattato un legale per aiutarmi nella fase di passaggio ad una nuova casa editrice qualora la mia abbia da ridire, desidero qualcuno che abbia stima per ciò che scrivo e rispetto per me.  Ad ogni modo tornando a noi, ho avuto del tempo per giocare un po' con quell'applicazione per la scrittura automatizzata, e non ho potuto far a meno di notare che in questi giorni si fa un gran parlare dell'impiego dell'intelligenza artificiale ad uso creativo, ho iniziato a scrollare le notizie un po' sul web e ho notato che si parla di questa cosa già da un po' di tempo non è qualcosa di questi giorni, però non si sa il perché ultimamente ci sono eserciti di pro e di contro, nondimeno, già si ipotizza una legislazione a misura del suo impiego per tutelare la proprietà intellettuale di artisti le cui immagini o creazioni, potrebbero essere usate senza il loro consenso ma non trovate la cosa alquanto bizzarra? Se ci pensiamo bene, una serie di leggi si potrebbero realizzare per difendersi da un uso smodato di un tipo di macchina creata dall'uomo, ma non si riesce a fare la stessa identica cosa, quando si tratta di difendere le proprietà intellettuali di grandi e piccoli creativi, artisti e  freelancer dall'uso improprio che ne fanno coloro che credendosi furbi, rubano il lavoro di altre persone realizzando opere o prodotti con un design, che non è frutto del proprio lavoro, ma del tasto copia e incolla del mouse. L'intelligenza artificiale (IA) dopotutto, è l'abilità di una macchina di mostrare capacità umane quali il ragionamento, l'apprendimento, la pianificazione e la creatività, in questa era viene impiegata già in diversi settori lavorativi a fini commerciali e non, ma si tratta pur sempre di una macchina, che è stata creata dall'uomo in quanto tale, seppur dotata di una tecnologia avanzata, senza l'infinito bagaglio artistico, creativo, storico e culturale fornito appunto nel corso della storia, non avrebbe nulla da poter usare, perciò si tratta pur sempre di un'intelligenza stupida che in ogni caso, deve essere programmata dall'uomo soddisfacendo per le aziende determinati criteri altrimenti sarebbe inutile, se non sbaglio è una cosa che ha detto anche quel cretino del mio ex Editor, l'ultima volta che l'ho visto. Al contrario coloro che se vanno in giro a violare il copyright a destra e a manca, copiando e incollando con il tasto destro del mouse, sono esseri umani senzienti che scelgono di propria iniziativa, di usare le idee altrui anzichè le proprie. La differenza è semplice nel primo caso siamo di fronte ad una macchina che esegue ordini per conto degli umani, il secondo è un essere umano che usa una macchina per di fatto violare di propria volontà la proprietà intellettuale altrui. In che modo è possibile difendere con una legge il lavoro dei creativi, musicisti, scrittori e artisti da una macchina programmata dall'uomo, mentre non riusciamo attraverso lo stesso metodo legislativo a difenderli dal furto di proprietà intellettuale perpetrato da altre persone? A parer mio siamo di fronte al classico caso del cane che si morde la coda, in cui un piccolo gruppo elitè di persone che possono permetterselo, creeranno le solite norme a loro favore, del resto nessuno è disposto a realizzare leggi che vanno a proprio svantaggio non credete? Concludo con una mia personale riflessione, siamo spaventati da uno strumento creato da noi e dopo averlo provato lo sono un po' anche io francamente, la tecnologia sta avendo sempre più la meglio sull'umanità perché glielo permettiamo, diventando pigri e noi abbiamo smesso di evolverci in quanto esseri intelligenti, però è anche vera un'altra cosa sta accadendo ciò che fu al tempo della catena di montaggio, che minacciava il lavoro manuale dell'uomo però nel tempo, abbiamo iniziato ad apprezzare quella tecnologia che in qualche modo aiuta oggi nella produzione in serie, permettendo così lo sviluppo del mondo come lo conosciamo oggi. Insieme al progresso si è visto poi la necessità di produrre merce a basso costo ottenendo anche prodotti di scarsa qualità e qui che mi aggancio con il mio discorso. Tutto dipende da noi e da come vogliamo sfruttare un nuovo strumento, in un'era di fatto sempre più dipendente dalla tecnologia, l'impiego della manodopera umana a vari livelli di creatività e lavoro diventa di fatto il valore aggiunto che fa la differenza e lievitare i prezzi, ne sono un esempio il settore tessile dell'alta moda e quello dei motori con le vetture assemblate a mano come per esempio la Pagani, ma non dimentichiamoci del settore letterario, artistico e creativo secondo la mia modesta opinione questa paura cesserà, nel momento in cui l'umanità riuscirà a diventare la versione migliore di se stessa, solo allora si potrà parlare di una reale evoluzione dell'uomo ed in quel momento potremo convivere, con ciò che abbiamo creato in tutti questi secoli di progresso tecnologico senza averne paura. Sono sicuro di aver dato a voi amici miei, alcuni spunti interessanti su cui riflettere e sono curioso di sapere cosa ne pensate in merito. Ah volevo dirvi anche un'altra cosa, ieri ho parlato con Paul al telefono dice che se il volo non ritarda dovrebbe tornare domani sera giusto in tempo per un aperitivo al Vecchio Trabocco e anche Roger sarà dei nostri, sarebbe bello poterci riunirci tutti un giorno. L'orologiaio

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    Piccoli pensieri inopportuni…

    È solo il perbenismo di molti considerare accettabile e più piacevole andare a letto con una ragazza reputata seria che con una pornostar o una ragazza di nightclub. Se fossi più giovane, più libero mi piacerebbe sposare una prostituta e salvarla dalla strada, ammesso e non concesso che volesse essere salvata e da me poi.  Vedo nella pornostar, nella ragazza di nightclub,  nella pros... Altro...

    È solo il perbenismo di molti considerare accettabile e più piacevole andare a letto con una ragazza reputata seria che con una pornostar o una ragazza di nightclub. Se fossi più giovane, più libero mi piacerebbe sposare una prostituta e salvarla dalla strada, ammesso e non concesso che volesse essere salvata e da me poi.  Vedo nella pornostar, nella ragazza di nightclub,  nella prostituta un’onestà completa che altre donne non hanno. Molti vogliono il mistero in una donna, considerata seria,  ma il mistero si può vedere in ogni donna, nessuna esclusa. Molti sono limitati dalla gelosia, dalla smania di possesso. Considerano una donna libertina come una “pubblica moglie”. La considerano inferiore. Nessuno però sa dove inizi la libertà e finisca la necessità in scelte del genere e anche se si trattasse di piena libertà  sono scelte anch’esse rispettabili. Invece ci vuole rispetto perché la prostituta è sempre stata la fidanzata o la moglie di qualcuno , è la figlia o la madre di qualcun altro.  Come non ricordare poi Maria Maddalena? E poi uomini ditemi quante volte avete usato e gettato via una donna, cioè l’avete trattata da puttana? E voi donne ditemi quante volte vi siete fatte usare e gettare via come una puttana? Io sono tra quelli che vedono in una prostituta un candore, una purezza che altre donne, considerate morigerate, non hanno. Ma non fate pensieri affrettati: non vado a puttane, anche perché non ho i soldi! E non pensate che tutte le donne dovrebbero essere più puttane secondo me o che consideri tutte le donne un poco puttane. Niente di più sbagliato! Come aveva capito De André però le prostitute non danno solo piacere, fanno molto di più per il prossimo.

    Inutile giocare con gli intellettualismi. Alle volte è bene guardare in faccia la realtà,  guardarsi allo specchio. Lo so che è sempre patetico fare dei bilanci esistenziali. È tutto tranquillo, ma qui il tempo potrebbe stringere. Inutili sono gli esercizi di stile. Inutile nascondersi e mentire a sé stessi. Sono qui; sono solo con me stesso e mi interrogo, interrogo me stesso.  Sono domande comuni, ma mi stanno più a cuore di tanti sofismi. Le domande e le considerazioni che seguiranno saranno banali e scontate, ma pressano dentro me, vogliono uscire a tutti i costi; sento che devo comunicarle. Urgono dentro me. In tutta onestà cosa è rimasto? Cos’è rimasto di quel ragazzo? Cos’è rimasto di quel sedicenne insicuro, goffo, diffamato? Cos’è rimasto di quel sedicenne rifiutato dalle ragazze? E di quel diciottenne che faceva avanti e indietro da Firenze a casa per inseguire le sue coetanee? E di quel ventenne che cercava la sua generazione e provava l’amore durante un’occupazione? E di quello studente contestatore e svogliato? E di quel lettore accanito? E dei suoi amici? Delle ragazze che ci sono state? Di quelle che lo hanno rifiutato? Di quelle sbornie con gli amici pisani? E di quei pomeriggi noiosi nel suo negozio!? E di una passante che gli sorrideva,  poi faceva sesso con tutti gli altri e non con lui? E di quell’epoca? Di quelle polemiche? Di quei dissapori? Cosa è rimasto di quegli incontri fugaci? Cos’è rimasto delle albe e dei tramonti visti? Degli incontri? Di tutti i visi e di tutte le voci? In tutta onestà mi chiedo, come Battiato in Mesopotamia, cosa rimarrà? La ascolto spesso quella canzone. È difficile trovare una canzone sia esistenziale che metafisica.  Cosa rimarrà delle mie cose scritte? Delle parole dette? E poi mi chiedo a cosa è servita la mia vita? Si continua a vivere così ignorando il fine ultimo della vita. I giorni trascorrono brancolando nell’incertezza.  L’umanità rifiuterà il mio lascito. Non sarà una vita degna di essere ricordata. Inutile essere troppo nostalgici e finire di cadere nel melenso. Oramai quel ragazzo è diventato un uomo attempato senza alcun ruolo. Un pover’uomo e per giunta solo. Lo so che c’è di peggio che sublimare piccole sofferenze interiori, disagi esistenziali, inadeguatezza, assurdità, solitudine. Non è però commiserazione ma la presa di coscienza di un dato di fatto. Di quel ragazzo, come di molti altri non resterà niente. Ma questo non è un dramma. Non è importante sapere cosa resterà,  a cosa è servito, dove finirà questo giorno. Importante è averlo vissuto. Già avere questa consapevolezza esistenziale,  questa accettazione del destino è abbastanza.  Forse tutto passa e niente resta: ma anche questa è un’ipotesi tra le tante, anche se tra le più accreditate. In realtà non ne siamo sicuri. Importante comunque è esserci incontrati, aver sognato assieme, aver amato, aver cercato invano di lasciare una traccia nell’animo gli uni degli altri, aver cercato un senso, non averlo trovato e allora aver cercato  di dare un senso.  Importante è aver vissuto. Tutto questo non lo potrà togliere nessuno a quel ragazzo, a tutti quei ragazzi come lui. Tutto questo non ce lo potrà togliere nessuno. E quando me ne andrò,  quando ce ne andremo ci saranno altri ragazzi con la stessa voglia di vivere e la stessa identica ricerca di assoluto. E poi altri ancora e poi di nuovo. Forse all’infinito.

    Desiderare un nuovo pensiero o pensare un nuovo desiderio? Desiderare o pensare? Desiderare e pensare? Come è labile il confine. A riprova del fatto ci si ricordi che il fidanzato dice alla ragazza “ti ho pensato” che significa spesso “ti ho desiderato”, anche se non sempre. Forse il desiderio è solo un pensiero molto avventato e molti pensieri sono desideri più avveduti, ponderati, sorvegliati. Nella testa spesso è difficile trovare una linea di demarcazione perché tutto è ingarbugliato. Alcuni vorrebbero essere puristi e pensano che il desiderio avveleni il pensiero o viceversa. Eliot era onesto intellettualmente: lo scriveva a chiare lettere che c’era una confusione tra “memoria e desiderio”.  Confessatelo anche voi, maestri dello spirito, che è difficile fare chiarezza, fare luce. Confessatelo almeno a voi stessi. 

    Vivo e cerco di continuare a vivere. Non basta? 

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    Sunyata. parte II

    Comunque, dicevo, in una notte tale, quando ogni cosa pare svanire nella ruota degli eventi, io ero lì.Buio intorno.Silenzio.Qualche traccia del mio passaggio nella cucina, dove le stoviglie erano ancora da riporre: un piatto e un bicchiere mezzo vuoto, le posate, un pezzo di pane sbocconcellato.Appena appena, dalle tapparelle, filtrava una lama di luce.Tutti dormivano. Lo senti quando la no... Altro...

    Comunque, dicevo, in una notte tale, quando ogni cosa pare svanire nella ruota degli eventi, io ero lì.

    Buio intorno.

    Silenzio.

    Qualche traccia del mio passaggio nella cucina, dove le stoviglie erano ancora da riporre: un piatto e un bicchiere mezzo vuoto, le posate, un pezzo di pane sbocconcellato.

    Appena appena, dalle tapparelle, filtrava una lama di luce.

    Tutti dormivano. 

    Lo senti quando la notte è piena. 

    Sembra che il sonno della città avvolga ancor più intensamente le ore profonde, le 2, le 3… l’alba ancora da giungere, quasi non potesse sorgere se non con la nostra volontà di luce, ma essa non è abbastanza da farla anticipare e accelerare e in questo sta parte del nostro sconforto. 

    Io ero lì. 

    Ascoltavo il battito del mio cuore. 

    Pulsava. 

    Ero vivo. 

    Ero vivo?! 

    Ero. Vivo?

    Scorrevano le immagini nella mia mente. Nel proiettore magico dentro il cranio, si affastellavano le immagini del giorno appena trascorso e poi più indietro e ancora e ancora… ricordi così lontani da apparire in super8 b/n e volti e azioni ed emozioni e sogni e rimpianti e ricordi…  Che scherzo del destino: si vuole vivere a lungo: senza tenere conto della pesantezza cui giungono i nostri passati archivi! Scartabellarci dentro diviene gravoso! 

    E lo affermo con ironia: non ci sono che ossimori in queste nostre esistenze!

    Ma torniamo a quella notte: mi domandai: a cosa potrei mai rivolgere la mia attenzione per non sprofondare nei soliti loop?

    A DIO. 

    Non che fosse una implorazione: per quanto si sappia che non vi sia nulla di eccezionale in chi si rivolge nei momenti disperati all’Entità suprema, anche per i più impenitenti e sacrileghi non credenti!  

    Chapeau a chi si abbandona alla preghiera nel momento del disperazione: un conforto può giungere ed è una scommessa quella del credere e del non credere. 

    Io mi trovavo su quel crinale: e perché non giungere a definire qualcosa cui nessuno era giunto prima di me? 

    O forse lo aveva anche già fatto, ma nulla vale quanto il fare in prima persona. 

    Mi domandai, con un tono di voce desto nella mia mente, ad acquietare le immagini che si erano, nuovamente e insistentemente, precipitate a scomporre la mia razionalità: la creazione di ogni cosa proviene dal nulla… no, non dal nulla: dal vuoto. 

    Un dio, o DIO deve averla fatta emergere in quello spazio, ove nulla esiste e non esiste neanche il nulla (mi scuso per l’uso arzigogolato del linguaggio. Quando si compiono tali salti di natura, il linguaggio non tiene proprio! Capisco i mistici: che faticaccia tradurre in parole pensieri che non sono pensieri ma percezioni composite. Mai letto le Upaniśad?!), ovvero è il vuoto.  

    Il vuoto è vuoto: potete voi pensarlo? 

    Lascio un momento per farlo…

    No?

    Allora è proprio il vuoto. 

    È più del nulla cui invece ci si può arrivare per sottrazione; esiste qualcosa, lo tolgo a se stesso: 1-1=0.

    Ma il vuoto è proprio vuoto. 

    Ebbene, da qualche parte, in qualche parte, un dio o DIO deve aver tratto il TUTTO dal Vuoto.

    Specificando:

    DIO+vuoto= ∞

    ECCOLO! 

    Perché il vuoto assume come sua idea che sia un potenziale, secondo la fisica quantistica. (Noi occidentali abbiamo necessità d un aggancio con il mondo scientifico, ricordate?) quello spazio non spazio dove si può estendere la Creazione. 

    E un dio, o DIO, solo dal vuoto può aver dato origine. 

    Dal potenziale intrinseco del Vuoto.

    Ora, lo so che questo concetto emerge anche nella filosofia induista e buddista. Lo so perfettamente. (Qui stavo, quasi per un automatismo mnemonico, copiando e ripetendo quella che mi pareva la logica più concepibile di questa esistenza, dispiegatasi in un certo punto cosmologico.)

    Se poi ci pensate bene, come ci pensai io quella notte, da questa equazione ne consegue che:

    ∞-vuoto= DIO

    E se il vuoto è vuoto:

    ∞=DIO 

    E pure:

    ∞-DIO=vuoto

    Ma DIO deve assumere qualità sempre positive: assume in sé ogni elemento esistente (l’Inferno quindi è comunque parte di DIO, ma questo lo lascerei come tema ai teologi per trovarne una di quelle astruse giustificazioni cui per millenni ci hanno abituati!) 

    E se così fosse davanti a DIO, il meno va commutato in +

    Il che trasforma l’ultima equazione in 

    ∞+DIO= vuoto

    Dal che se ne deduce che il vuoto è comunque un infinito potenziale.

    Che è sia infinito, sia qualità positiva. 

    Il mio timore di scivolare nel vuoto allora non poteva assumere una valenza così angosciosa, così come mi aveva tormentato, per anni, in quelle notti insonni: il vuoto era potenziale e io, una volta concluso il mio tempo, sarei ritornato nel potenziale infinito di DIO e nell’infinito stesso. 

    Potevo dormire serenamente. 

    Così come da allora avvenne. 

    Mi bastava la mia equazione. 

    Mi alzai da dove ero sprofondato nelle mie riflesso, quasi con un balzo, leggero. Tornai in cucina e mi finii il bicchiere mezzo pieno e conclusi con il pane: avevano ripreso sapore.

    Poi mi alzai e me ne andai a dormire.

    Sereno. 

    Spero basti anche a Voi. 

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    Sunyata. parte I

    Signori e signore, buonasera.Benvenuti e benvenute!Stasera siamo qui per dimostrare matematicamente l’esistenza di Dio.Ebbene sì.Non mi sembra inopportuno dire che il tema non è dei più leggeri, né forse dei più attuali. Ma da qualche parte bisogna pure cominciare per uscire dal pantano in cui ci siamo ficcati, insozzandoci con le lordure di questo mondo. Ovunque ci si giri, non p... Altro...

    Signori e signore, buonasera.

    Benvenuti e benvenute!

    Stasera siamo qui per dimostrare matematicamente l’esistenza di Dio.

    Ebbene sì.

    Non mi sembra inopportuno dire che il tema non è dei più leggeri, né forse dei più attuali. 

    Ma da qualche parte bisogna pure cominciare per uscire dal pantano in cui ci siamo ficcati, insozzandoci con le lordure di questo mondo. 

    Ovunque ci si giri, non pare che esista nessuna possibilità di scampo a quel nodo alla gola che ci prende e ci lascia, attoniti e madidi, nel cuore della notte. Chi non ha mai provato quel terrore che non lascia tregua: proviamo a lenirlo con qualche pillola, le raccomandazioni del dottore, l’alcool, le droghe e qualsiasi altro metodo si possa incontrare: basta che finisca. 

    Un respiro: datemi un respiro ancora… e un altro… piano piano, si torna a galla… lentamente… come un qualsiasi Odisseo che trova un pezzo del relitto e, annaspando, riesce a sporgere il capo dagli abissali gorghi che sembrano volerlo inghiottire e rinchiudersi sopra. Inesorabilmente. Ma è in salvo. Per ora. Poi chissà… 

    … 

    Non è forse così?

    Ma non sono di certo qui a terrorizzarvi.

    Come dicevo poco anzi, ho io la soluzione: la dimostrazione matematica all’esistenza di Dio. 

    Non che non sia stata tentata prima una dimostrazione logica all’esistenza di Dio: Gödel vi arrivò, inanellando connessioni logiche. Ventotto passaggi per giungere alla formulazione conclusiva. E ancor prima, il formidabile Leibnitz. 

    Il che risulta prodigioso e incontrovertibile. 

    Di certo i logici matematici hanno sempre quella capacità estrema di astrazione che nella quotidianità, ahimè, non è forse poi così fruibile.

    “Caro, passami il sale…”

    “Intendi l’oggetto in sé, ovvero il cloruro di sodio o il suo contenitore? Ma tra quelli che abbiamo in cucina, specificamene la forma, non prima di avermi definito a quali strutture formali tu faccia riferimento… cara, dove stai andando… ma stai facendo le valigie??? Vuoi forse dirmi qualcosa???”

    Insomma, matrimoni finiti ancor prima di condividere le pietanze. 

    Permettetemi, quindi, dopo questa celia, una breve digressione sulle definizioni che si attribuiscono a Dio: qualità positiva per eccellenza, summa di ogni cosa, pensiero non pensabile, ente non dimostrabile, insondabile essenza e continuo divenire, ineffabile espressione del desiderio infinito di esistere ed essere…

    E come ben saprete ogni religione ne ha voluto dare una propria definizione che lo avvicinasse a noi, sue misere creature.

    L’Altissimo, il Misericordioso, Adonai, Brahman e via a seguire. 

    Di certo, ogni religione ha declinato per tradizione storia e culturale un dio che fosse a propria immagine e somiglianza. Talvolta distaccandolo dalla natura umana, trascendendo e ponendosi oltre. 

    In un oltre che noi non possiamo mei definire ma solo cogliere per brevi istanti…

    Insomma, al solito, solo i mistici sembrano saper intendere, seppur per frazioni d’istanti abbacinanti, la vera natura del divino.

    E fin qui, andrebbe anche tutto bene, se si restasse nell’ambito della Fede. 

    Ma noi siamo uomini e donne del mondo occidentale: necessitiamo di dimostrazioni e di certezze.

    Io credo, per una certa diffidenza rispetto al passato: a furia di tagliare teste e di ammazzarci senza pietà, tra guerre di religione e conflitti di potere per un amen o un credo, non possiamo certo accontentarci di risolverci nel suadente misticismo di certa parte del mondo: siamo occidentali, suvvia!

    Che mai ci mettiamo a fingere di credere in qualche afflato mistico?

    Suvvia, Cartesio ci avrà pure insegnato che siamo pensiero e razionalità??

    Quindi giungo al momento cardine.

    La dimostrazione matematica dell’esistenza di DIO.

    Non vi nasconderò le mia emozione a proporre per la prima volta al mondo, a Voi, qui riuniti, ma è necessario e indispensabile spiegarvi come vi sia giunto. 

    Era una notte buia e tempestosa…

    Pardon, ho letto molto i Peanuts!

    Comunque era davvero una notte buia e tempestosa, non per le condizioni atmosferiche, bensì per il mio stato d’animo.

    Noi uomini occidentali, spesso, ci confrontiamo con questa sensazione di vuoto interiore, di mancanza di appigli, di scarsa speranza nel futuro: vogliamo sempre lasciar traccia nel mondo. Non possiamo accontentarci di essere come animali, la cui carcassa divenga infine il solo bianco scheletro, per rientrare nel corso della Natura. Lo splendore di cui ci ammantammo non può rimanere relegato nella memoria di pochi o poche che, inevitabilmente, verrano a loro volta divorati dal Tempo, l’unica divinità davvero ineludibile. E a cui dovremmo inchinarci con maggior fervore, di certo senza risposta, ma perlomeno per insegnarci l’umiltà. E l’unicità nostra.

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    Una volta esisteva l'uomo

    Una volta esisteva l’uomo.Una volta.Ma era uomo?Non lo so. Ma oggi se guardo indietro e volgo lo sguardo e l’attenzione a quell’uomo, dubito.Era un uomo esteta. Un uomo dedicato a sedurre se stesso, prima che gli altri. Viveva di piacere. L’uomo interiore è probabilmente nato con Sant’Agostino, ma morto anche poco dopo. Forse ha avuto qualche rigurgito dopo. Ma è certo che Dostoevsky n... Altro...

    Una volta esisteva l’uomo.Una volta.Ma era uomo?Non lo so. Ma oggi se guardo indietro e volgo lo sguardo e l’attenzione a quell’uomo, dubito.Era un uomo esteta. Un uomo dedicato a sedurre se stesso, prima che gli altri. Viveva di piacere. L’uomo interiore è probabilmente nato con Sant’Agostino, ma morto anche poco dopo. Forse ha avuto qualche rigurgito dopo. Ma è certo che Dostoevsky ne è stata l’ultima propaggine...continua a leggere qui...

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    Potere, pensiero e poesia…solo una breve annotazione

    La prima cosa che il potere vuole è interferire su quelli che Lewin chiamava "campi di forza". Anche questo è un modo per imbrigliare le carte, per confonderci interiormente.  È sempre più difficile trovare il modo, lo spazio e per molti il tempo di concentrarsi, di riflettere. Anche molte persone che svolgono professioni intellettuali non ci riescono e delegano perciò a intellettuali ri... Altro...

    La prima cosa che il potere vuole è interferire su quelli che Lewin chiamava "campi di forza". Anche questo è un modo per imbrigliare le carte, per confonderci interiormente.  È sempre più difficile trovare il modo, lo spazio e per molti il tempo di concentrarsi, di riflettere. Anche molte persone che svolgono professioni intellettuali non ci riescono e delegano perciò a intellettuali riconosciuti il compito arduo di pensare. Però a molti cittadini oltre alla possibilità di riflettere sul mondo manca la possibilità di riflettere, di meditare sulla propria psiche, sulla propria vita; per questo chiedono aiuto a un/a analista. In poesia spesso è il testo che ci fa da analista. Oppure paziente e analista coesistono in noi stessi all'interno della scrittura, della valutazione, della censura,  della revisione. In poesia uno può dar libero sfogo al suo materiale spurio psichico, così come può controllare l'inconscio. Ma l'inconscio non si può rimuovere totalmente: qualcosa sfugge sempre. Esprimere il proprio inconscio oltre che una rispettabile scelta artistica è anche un atto di libertà interiore, per alcuni addirittura una necessità interiore. 

    Un'altra cosa che il potere vuole fare è imporre un immaginario e un inconscio collettivo che sovrasti totalmente sull'inconscio individuale. Ho già espresso a più riprese questo concetto: l'inconscio collettivo attuale non ha più archetipi decenti perché mass media, moda, cinema, televisione non sono più mitopietici come un tempo lo era la letteratura. Oggi gli archetipi propinati sono tutti negativi.  È anche questo un modo per renderci senza principi, per farci mancare punti fermi e terreno sotto i piedi. Ma non c'è solo questo. Andiamo oltre. 

    “Se la funzione alfa non agisce sulle percezioni, ad esempio emozioni dolorose, allora l’esperienza viene espulsa, mediante un’attività pilotata dall’angoscia. Una paziente diceva: “non mi sono dovuta alzare per andare in bagno, nel bel mezzo della notte, perché ho fatto un sogno”. Intuitivamente riconosceva che il sogno trattiene qualcosa in modo che non si debba evacuarla precipitosamente. Bion chiama questi elementi che non possono essere trattenuti nella mente elementi beta. […] Sono non-digeriti e danno la sensazione di essere cose-in-sé. Come corpi estranei all’interno della mente. Sono solo adatti ad essere evacuati perché non li si può pensare. Sono persecutori: pezzi di scarto dei quali la mente vuole sbarazzarsi; secondo il principio di piacere quel che provoca disagio viene espulso.” (Symington J e N. (1996), Il pensiero clinico di Bion, Raffaello Cortina, Milano, 1998. [p. 68]). Il potere tramite mass media, moda, pornografia non vuole che metabolizziamo gli oggetti del nostro desiderio. Non vuole che li comprendiamo, che li interiorizzamo globalmente, che li rielaboriamo criticamente e consapevolmente. Per Kernberg in questo modo non siamo più in grado come un tempo di "integrare le parti buone con quelle cattive". Il potere vuole da noi la scarica, l'acting out senza naturalmente che mai avvenga l'abreazione. Così facendo il potere cerca di ridurre la funzione alfa e di aumentare gli elementi beta. La funzione alfa digerisce tutto ciò che è psichicamente negativo. Bion usa proprio la metafora della digestione. Il desiderio non è che una delle tante cose umane su cui agisce la funzione alfa. La poesia è funzione alfa allo stato puro. Ecco perché la poesia dà noia al potere e i mass media rivolgono un'attenzione insufficiente nei confronti della poesia. La poesia è conoscenza e comunicazione dal nostro profondo al profondo altrui ed è per questo che dà  noia al potere, che ci vorrebbe conformisti, frivoli, superficiali, consumistici. 

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    Su solitudine, desiderio e massificazione…

    Scrive la poetessa Lavinia Frati che la solitudine è congenita alla nascita. Si riferisce giustamente al trauma della nascita. Aggiungo io che la solitudine la si prova durante la morte nostra o di qualcuno caro.  Il mio carissimo amico Lele mi dice al telefono che la morte è un grande distacco traumatico. Insomma si nasce e si muore soli. Ma come ha detto anni fa questo Papa l'uomo non è ... Altro...

    Scrive la poetessa Lavinia Frati che la solitudine è congenita alla nascita. Si riferisce giustamente al trauma della nascita. Aggiungo io che la solitudine la si prova durante la morte nostra o di qualcuno caro.  Il mio carissimo amico Lele mi dice al telefono che la morte è un grande distacco traumatico. Insomma si nasce e si muore soli. Ma come ha detto anni fa questo Papa l'uomo non è fatto per stare solo.  Siamo animali sociali, politici,  simbolici (e i simboli si devono comunicare). Abbiamo bisogno di contatti umani, di stimoli sociali. La pornografia, la società stessa imporrebbero che questi stimoli, questi contatti, queste relazioni fossero finalizzati alla sessualità e al raggiungimento dell'orgasmo. Ma esistono molte forze contrapposte nella società.  A imperativi categorici puramente carnali si contrappongono altrettanti imperativi categorici spirituali. La risultante è un essere umano frastornato, distratto, ingolfato,  incerto, smarrito, indeciso sul da farsi perennemente: insomma una persona che non ha fermezza, che non sa che cosa vuole; è l'essere umano che non si ribellerà mai, che non proverà mai a fare la rivoluzione perché per fare la rivoluzione non ci vuole chissà quale elevazione spirituale ma un minimo di rinuncia pulsionale. L'uomo contemporaneo di oggi è programmato per soddisfare le sue "esigenze sessuali". È un modo per controllare la nostra libertà di azione e soprattutto di pensiero. La stragrande maggioranza dei pensieri degli esseri umani in forze in questa società occidentale è fatta soprattutto da desideri sessuali. Come cantava Gaber abbiamo la libertà di fare tutto, tranne quella di pensare. Per il resto come scriveva Schopenhauer "l'uomo può fare ciò che vuole ma non sa volere ciò che vuole". Il problema è che nessuno sa perché nascono certi desideri. Un altro dilemma è come conciliarsi con il nostro desiderio. Ma il problema maggiore è che mass media, moda, pornografia ci obbligano a desiderare partner che hanno certi criteri estetici e certi requisiti. Schopenhauer è stato un profeta. Ma il dominio entro cui si deve desiderare è sempre stato imposto dall'alto, è sempre stato stabilito dal potere. Un tempo c'era più spazio per i gusti personali.  Oggi nessuno ti impone chi amare, ma il potere ti indica le caratteristiche che deve avere. Oggi in questa società massificata, omologata abbiamo tutti grossomodo gli stessi desideri. La soggettività si è ridotta. Dicono "non è bello ciò che è bello. È bello ciò che piace". Ma se i nostri gusti personali non si uniformano ai canoni e ai modelli universalmente riconosciuti andiamo incontro alla disapprovazione e alla solitudine. Allo stesso tempo se noi non rientriamo in certi canoni estetici e se non rispecchiamo certi modelli andiamo incontro alla solitudine. Riconoscere tutto ciò, smontare questa macchina del desiderio, vedere questi meccanismi è il primo passo per essere autentici. Ritornando alla solitudine ci sono mille modi diversi di sentirsi, di essere soli, percezioni soggettive della solitudine  tanto diverse quanto sono gli uomini. La solitudine è una cosa che non si può omologare e proprio per questo è invisa al potere perché da essa può nascere un pensiero diverso, un pensiero contro. La poesia è importante perché comunica la solitudine. Come quella di Octavio Paz per esempio.

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    IT'S A JOKE FOR U?

    Dove posso trovare la serenità?Chiese all’alba l'uomo dai mille sogni infranti.Il cielo tramontò... Il passante teneva stretto un ramo di lucetra le labbra, lo riconsegnò alla ricca terra, indicò col dito un castagno e disse: “Prima di arrivare all’albero,troverai un sentiero più diroccato della speranza umana, dove le salite sono montagne e le discese precipizi... p... Altro...

    Dove posso trovare la serenità?

    Chiese all’alba l'uomo dai mille sogni infranti.

    Il cielo tramontò... 

    Il passante teneva stretto un ramo di luce

    tra le labbra, lo riconsegnò alla ricca terra, 

    indicò col dito un castagno e disse: 

    “Prima di arrivare all’albero,

    troverai un sentiero più diroccato della speranza umana, dove le salite sono montagne e le discese precipizi... 

    prosegui fino in fondo appena oltre l’adolescenza, verrai attirato verso il fiore della solitudine, sii forte e fermati due passi prima a guardare i rottami, è tutto ciò che rimarrà quando deciderai di distruggere tutto quello che credevi essere... 

    Nell’intimità della nuova consapevolezza sentirai un fruscio: 

    vedrai un bambino arrampicarsi sull’alto castagno, in grado di distinguere la rabbia dall'insicurezza... 

    chiedi a lui dove puoi trovare la serenità..."

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    Sulla giustizia e sull'ingiustizia…

    Che cosa ci spinge a invocare giustizia e uguaglianza dal profondo del nostro cuore quando tutto nel mondo è ingiustizia e disuguaglianza? Non è forse un'ambizione mal posta, un'utopia? Di solito quando si parla di ingiustizia ci si riferisce a quella economica. È questa che crea più sofferenza e che addirittura fa morire di fame nel mondo. Ma esiste non solo il lato Marx ma anche quello Freud... Altro...

    Che cosa ci spinge a invocare giustizia e uguaglianza dal profondo del nostro cuore quando tutto nel mondo è ingiustizia e disuguaglianza? Non è forse un'ambizione mal posta, un'utopia? Di solito quando si parla di ingiustizia ci si riferisce a quella economica. È questa che crea più sofferenza e che addirittura fa morire di fame nel mondo. Ma esiste non solo il lato Marx ma anche quello Freud. Ci sono le ingiustizie sentimentali, sessuali, psicologiche. La lunghezza della vita, la modalità della morte di ognuno sono diverse e ognuno può percepire come ingiuste. Ci sono  lo stato di salute, le patologie,  le malattie, gli incidenti. Impossibile sarebbe rendere gli uomini tutti uguali. Non sarebbe cosa umana e farlo sarebbe una forzatura spaventosa, bisognerebbe eliminare gran parte della libertà individuale e lo sforzo sarebbe vano lo stesso perché l'uomo non è fatto per essere in catene. Per eliminare totalmente le ingiustizie bisognerebbe rendere tutti uguali e tutte le vite uguali: ciò è impossibile. L'ingiustizia è fisiologica per l'umanità e per questo mondo. Si può ridurre ma non eliminare, anche perché quello che io considero giusto per un'altra persona è ingiusto e viceversa. Il valore di un uomo si vede molto da come sopporta il suo dolore e le ingiustizie subite o ciò che ritiene tali. Anche se tutta questa disparità di trattamento fosse dovuta non alla sorte ma alle capacità individuali e alle differenze individuali sarebbe comunque una grave ingiustizia. In fondo i limiti e le possibilità di ognuno dipendono da Dio e oltre a questo la psicologia delle differenze individuali non è una scienza esatta: tutt'altro. Diciamocelo onestamente: spesso la differenza tra vita e vita non è dovuta solo al merito, anche se chi ce l'ha fatta tende a percepire come unico fattore determinante solo il merito, l'impegno, la capacità, mentre tende a sottostimare la fortuna, il caso, Dio. E poi cristianamente parlando la salute, la volontà,  la possibilità di impegnarsi, la capacità di realizzare un progetto, la fortuna che un'altra macchina vi venga addosso quando guidate chi ve le concede se non Dio? Certi self made man si comportano come se la sorte e con essa Dio non esistessero. È quello che in psicologia si chiama locus of control interno. Può essere molto utile, ma è una percezione errata, un'illusione che non corrisponde al vero. La dottrina cristiana dice che Dio ha dato all'uomo il libero arbitrio, ma naturalmente molti si scordano che tutto ciò avviene nel dominio e nei limiti della volontà divina perché poi alla fine è Dio che dà e toglie la vita: alla fine viene sempre fatta la volontà di Dio. Un interrogativo assillante, pressante nell'animo di ognuno è quanto  ogni ingiustizia dipenda dalla sorte, dalla natura umana, dalla logica del sistema, dell'etica del singolo individuo, dalle relazioni umane che si sono venute a creare in quel determinato frangente. Poi bisogna valorizzare ogni nostra scelta,  cercare di valutare, di ponderare bene, di agire con criterio, di non farsi prendere dagli impulsi, di comportarsi bene senza andare fuori di sé. Bisogna sempre ricordarsi, come cantava Pierangelo Bertoli, che "in quell'attimo c'è anche Dio". 

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    Sulla poesia e i poeti…

    Non ho mai scritto per diventare famoso o assurgere alla gloria postuma. Molto tempo fa scrivevo per cuccare oppure per uno sfogo interiore (e la poesia nasce sempre da uno sfogo dell'animo. Ammettetelo,  confessatelo anche voi cerebrali, distaccati, stoici epigoni della neoavanguardia). D'altronde c'era chi andava in palestra, chi si comprava una Mercedes o mixava canzoni per cuccare. Io scr... Altro...

    Non ho mai scritto per diventare famoso o assurgere alla gloria postuma. Molto tempo fa scrivevo per cuccare oppure per uno sfogo interiore (e la poesia nasce sempre da uno sfogo dell'animo. Ammettetelo,  confessatelo anche voi cerebrali, distaccati, stoici epigoni della neoavanguardia). D'altronde c'era chi andava in palestra, chi si comprava una Mercedes o mixava canzoni per cuccare. Io scrivevo. Le cose che scrivevo non erano mai puro esercizio intellettuale: sono sempre rimasto ancorato alla realtà. Ma era molto tempo fa. Oggi come scrive Guccini "il cielo dei poeti è sovraffollato". Oggi ho la vaga impressione che le ragazze siano molto più prosaiche e preferiscano un lavoro sicuro, una bella dichiarazione dei redditi  o alcune addirittura una foto porno dei genitali a dei versi maldestri,  come i miei. Comunque il ragazzo intimista, solitario,  meditabondo non è mai andato di moda. Oggi penso che la poesia sia una necessaria illusione. Io non la scrivo più ma ho bisogno di leggerla. Da una parte penso che un giovanissimo che pubblica un libro di versi a pagamento o se lo autopubblichi è doppiamente felice perché somma all'illusione della sua età quella della poesia. Ma, salvo rarissime eccezioni, è altrettanto vero, come scriveva Andrea Temporelli,  che non bisognerebbe nemmeno far leggere a nessuno le cose che abbiamo scritto al di sotto dei trent'anni. Insomma non tutti sono Rimbaud. Io ho continuato a scrivere per stare bene con me stesso. Era un modo per approdare a una serenità interiore, a un equilibrio interiore. Non mi importava più il consenso né chi leggeva. Ora come ora scribacchio per il web e non so chi raccoglierà, chi recepirà ciò che scrivo. Ho la sensazione talvolta che alcuni miei amici e amiche cari e care non leggano le cose che scrivo (perché troppo impegnati sul lavoro), mentre le leggano degli sconosciuti a cui sto antipatico: è ciò che io chiamo l'eterogenesi del pubblico, ovvero non sai mai chi ti leggerà né cosa penserà dei tuoi pensieri. Insomma il web ha le sue incognite, ma queste sono in genere le incertezze di chiunque scrive perché scrivere significa anche esporsi. Leano Morelli nel 1978 cantava "non bisogna essere poeti" e quando tutti cercavano la gloria il bravo cantautore scriveva che anche se una sua poesia poteva valere  poco, non l'avrebbe gettata nel fuoco perché "non si bruciano i pensieri". Si può scrivere per cogliere un attimo, eternare un momento o quantomeno tramandarlo ai posteri familiari,  per quel che è possibile: c'è  chi scrive saggiamente per lasciare non una traccia all'umanità ma ai suoi cari. Più vado avanti e più mi sembra che la critica letteraria indaghi a fondo le relazioni tra poetica e poesia, tra musa e poeta, ma non quella tra poesia e poeta. Sono arrivato alla conclusione che si può scrivere una poesia senza essere poeti e che si può essere poeti senza scrivere nemmeno una poesia. Ma per molti è consuetudine pensare che le poesie le scrivono i poeti e che  per essere poeti bisogna scrivere poesie. De Gregori tempo fa tagliava la testa al toro e scriveva "per brevità chiamato artista". Io penso che di molti facitori di versi si potrebbe dire e scrivere "per bonaria indulgenza e senza entrare nello specifico chiamato poeta". Adesso che sto bene con me stesso non scrivo più poesie da anni. Ho altri modi per dire che mi sento solo o per raggiungere un equilibrio. Ma l'equilibrio interiore non è mai un approdo definitivo. Di volta in volta si presentano delle contrarietà a turbare l'animo. Ci sono dei cul de sac sentimentali, degli innamoramenti non corrisposti, le incertezze esistenziali e così via. Ma scrivere deve essere un mezzo per migliorare sé stessi o il mondo. La scrittura non  può essere psicoticamente o nevroticamente il fine ultimo. Non bisogna mai comunque scrivere esclusivamente di noi stessi  e per noi stessi. Prima bisogna vivere, quindi filosofare e poi scrivere.  Anche quando uno o una ha raggiunto la memorabilità che cosa avrebbe fatto di sé stesso/a e della sua vita? È meglio non fare naufragio e non passare alla storia che viceversa. Non si può sacrificare sé stessi sull'altare della letteratura. È bene non passare alla storia e non fare la fine di Anne Sexton e di Sylvia Plath. Sarebbe bene che la comunità poetica non mitizzasse troppo il disagio esistenziale o  la depressione senza esorcizzarli né stigmatizzarli. Ci sono poeti e scrittori che non si curano con gli psicofarmaci né vanno da un/una terapeuta per essere più creativi. Primo: sacrificano la loro qualità della vita. Secondo: non è detto che la loro creatività sia degna di essere ricordata. Bisognerebbe ricordarsi a tal riguardo della distinzione di Pavese tra letterati e poeti. Essere letterati è già difficile. Essere poeti è un onore/onere che spetta a pochi, secondo il celebre scrittore. Oppure bisognerebbe rifarsi alla distinzione tra scriventi e scrittori del validissimo Luigi Malerba. Però forse pretendiamo tutti troppo da chi scrive. Forse bisognerebbe giudicare con più umanità e ricordarsi questo dialogo tra un grande poeta e un giudice, che non capirà le sue ragioni: 

    Brodskij in "Bagatelle comuniste" riportava...

    "Giudice: Qual è la tua professione?

    Brodskij: Traduttore e poeta.

    Giudice: Chi ti ha riconosciuto come poeta? Chi ti ha arruolato nei ranghi dei poeti?

    Brodskij: Nessuno. Chi mi ha arruolato nei ranghi del genere umano?". 

    E poi non ci sono solo i poeti laureati, come scriveva Montale, che si muovono tra gli acanti. Ci sono anche quelli minori che osservano pozzanghere. Detto alla Bob Dylan insomma "ognuno ha la sua chiamata". Per quanto riguarda il rapporto tra esistenza e scrittura non è detto che esista una via di uscita, una via di fuga né che possa eseere trovata con la scrittura. 

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    Due parole soltanto su darwinismo sociale e biopolitica…

    Il fatto che in ospedale i pazienti con più di 80 anni col Covid non vengano più intubati  ma lasciati al loro destino è la dimostrazione scientifica del darwinismo sociale in atto nei paesi occidentali. In fondo più anziani morti significano meno pensioni e meno pensioni significano meno debito pubblico. Boris Johnson e Bolsonaro con le loro dichiarazioni di intenti e i loro comportament... Altro...

    Il fatto che in ospedale i pazienti con più di 80 anni col Covid non vengano più intubati  ma lasciati al loro destino è la dimostrazione scientifica del darwinismo sociale in atto nei paesi occidentali. In fondo più anziani morti significano meno pensioni e meno pensioni significano meno debito pubblico. Boris Johnson e Bolsonaro con le loro dichiarazioni di intenti e i loro comportamenti conseguenti hanno dato prova che il darwinismo sociale grazie al Covid ha fatto più morti del razzismo. Certo non ci sono statistiche a riguardo. In tempi passati il razzismo ha scatenato schiavitù e colonialismo. Ma in questi ultimi due anni quante centinaia di migliaia di anziani sono morti di Covid a causa delle politiche scellerate di alcuni capi di Stato!?? Sono stati lasciati morire solo i più anziani. Non erano più produttivi. Era troppo costoso curarli bene. Le spese erano troppo onerose. Questi anziani col Covid per lo Stato erano solo un costo sociale. Il darwinismo sociale in questi ultimi tempi  ha avuto nettamente la meglio sulla biopolitica di Foucault, secondo cui ogni Stato moderno cerca di far vivere più a lungo possibile ogni suo cittadino. Per Foucault per ogni Stato era un dovere far vivere a lungo ogni cittadino e per ogni cittadino era un diritto/dovere campare più a lungo possibile. Anche la biopolitica può avere i suoi limiti e le sue pecche perché i cittadini in base a essa dovrebbero essere redarguiti o addirittura puniti per uno stile di vita non corretto,  Qualcuno ha pensato di far pagare i costi di ospedalizzazione a ogni non vaccinato, ma così facendo si creerebbe un pericolosissimo precedente: allora si dovrebbe far pagare il fio a ogni guidatore che aveva torto in un incidente, ogni fumatore, ogni alcolizzato, ogni drogato, ogni obeso e così via (la lista dei comportamenti a rischio potrebbe essere infinita). Un difetto della biopolitica è che deve essere rispettata ogni volontà,  anche quella di autodistruggersi.  Io non penso che il darwinismo sociale abbia vinto definitivamente sulla biopolitica. È stato solo un predominio in questo breve lasso di tempo. I finanziamenti spingono la ricerca scientifica verso un prolungamento della vita. Ci sono i fondi pensioni e c'è tutto un business sugli anziani e la loro cura. Molti giovani campano grazie alle pensioni dei genitori. Le ricadute positive su un prolungamento della vita sono molte. Ma ci sono anche giovani che pensano che tra qualche decennio non avranno la pensione. Darwinismo sociale e biopolitica insomma sono due forze contrapposte. C'è una lotta incessante da tempo. Da un lato tutti i cittadini dovrebbero essere uguali per la medicina senza distinzioni, neanche di età.  Dall'altro gli anziani la loro vita l'hanno vissuta, i giovani sono il futuro della nazione e quindi largo ai giovani! In parole molto povere così si potrebbero riassumere questi due concetti inversi e opposti. Quando tutto va bene la biopolitica ha la meglio, ma il darwinismo sociale viene sempre ripescato e applicato per le emergenze, per le situazioni limite. Però di fronte alla sovrappopolazione, una delle possibili cause dell'Apocalissi,  il darwinismo sociale potrebbe avere definitivamente la meglio. Una volta ho visto un film comico e allo stesso tempo di fantasia, in cui veniva rappresentata una distopia in chiave demenziale: i cretini facevano sempre più figli e i più intelligenti non li facevano. L'umanità perciò  degenerava e veniva mandato un uomo medio nel futuro grazie alla macchina del tempo  a cercare di salvarla. Il film si intitolava Idiocrazy, il modo con cui veniva valutata la stupidità o meno era il q.i, che è una misurazione grossolana e perfettibile dell'intelligenza umana, ma il titolo del film era tutto un programma e la visione fu divertente. Il film mi risultò agrodolce, mi fece un poco riflettere. La realtà è che ogni governo è in sospeso tra darwinismo e biopolitica. La verità è un'altra: in queste righe ho estremizzato, pensato in modo un poco binario, ho filosofeggiato alla buona  perché darwinismo sociale e biopolitica sono un intreccio indissolubile e inestricabile. Però un fondo di verità c'era in questa dicotomia, in questa distinzione grossolana. Originariamente comunque la biopolitica tramite riproduzione, cura, igiene, profilassi tende a conservare il genere umano, ma questa sovranità dello Stato sul cittadino presenta sempre anche un risvolto tanatopolitico. 

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    Su piccole certezze, subito dopo smentite…

    Forse quel che resta oggi della maturità sono degli ossi seppia sulla spiaggia, tanto per citare Montale. Forse quel che resta oggi a me è solo aridità e niente altro.  I miei pensieri, le mie ideuzze sono solo residui, scarti di lavorazione di quel che rimane della mia materia grigia. Succede che qui nel mio cuore e nella mia testa molto è rivedibile.  Uno un giorno pensa di essere ... Altro...

    Forse quel che resta oggi della maturità sono degli ossi seppia sulla spiaggia, tanto per citare Montale. Forse quel che resta oggi a me è solo aridità e niente altro.  I miei pensieri, le mie ideuzze sono solo residui, scarti di lavorazione di quel che rimane della mia materia grigia. Succede che qui nel mio cuore e nella mia testa molto è rivedibile.  Uno un giorno pensa di essere approdato a una piccola certezza, a una piccola verità, magari a una certezza, a una verità tascabile. Se la tiene stretta, la coltiva, pensa di aver fatto chissà quale scoperta, magari pensa di accrescere o di poterla fare fruttare.  Poi il giorno dopo giunge la smentita: è la vita stessa che ci smentisce. I genitori invecchiano. Il lavoro manca. Il precariato è onnicomprensivo; è anche esistenziale. Accade che non sono più capace di innamorarmi. Accade che non provo più meraviglia, non mi stupisco più di niente. Non mi piacciono le novità e poi quando si verificano di solito sono negative. Accade che ultimamente tra amici ci ritroviamo quasi sempre a dei funerali; non abbiamo mai il modo né il tempo di ritrovarci, talvolta neanche la voglia. Succede che siamo sempre più abituati a mentire a noi stessi.  È quasi un'abitudine per stare meglio. Succede che ci affezioniamo e ci aggrappiamo con tutte le nostre forze all'unico corrimano che abbiamo, ovvero le nostre piccole certezze. Succede che l'unico album di ricordi delle mie amicizie è solo nella mia memoria.  Forse arrivati a una certa età, dopo una grande moria di sogni, bisogna ancora conservare imperterriti la capacità di sognare, come i Dik Dik che hanno sempre sognato la California e non ci sono mai stati o come la Mannoia che ha sognato il cielo d'Irlanda e non è mai stata in Irlanda. Succede così che nella vita aveva ragione Nietzsche quando in "Aurora" scriveva che quelli che danzavano vennero considerati folli da coloro che non sentivano la musica. Bisogna, a costo di apparire folli, cercare di andare oltre, di trascendersi, di non fermarsi mai, di superarsi sempre. Ma anche se la vita mette a dura prova le persone più resistenti è la morte il verdetto finale, anche se per Ungaretti in una sua celebre poesia "la morte si sconta vivendo", riprendendo il tema leopardiano della morte come liberazione dal dolore e dagli affanni. Quasi ogni sera mi siedo in giardino a guardare il tramonto. Guardo le pale eoliche, la linea dell'orizzonte. Guardo le venature violacee che sembrano dei piccoli sfregi al cielo sgombro di nuvole. Mi accontento della routine.  In fondo sto bene di salute, anche se bisogna sempre ricordarsi di una frase nelle prime pagine de "La montagna incantata", che è grossomodo così: "il paziente dice come si sente, ma è il medico a dire come sta". Diciamo che per ora non si sono presentati sintomi né avvisaglie di nessuna malattia. Ho una salute di ferro. Non ho mai la febbre. Non mi ammalo mai, nemmeno quando tutti gli altri prendono l'influenza. Inutile stare a chiedersi se ho voluto rimanere solo o se mi hanno lasciato solo. Forse entrambe le cose. Forse c'è stata una concomitanza di cause. Recriminare non serve a niente. Mi arrivano libri di poesia da recensire oppure perché io scriva una nota critica. Lo faccio unicamente per passione. Sono recensioni e note critiche particolari. Io trasgredisco le regole che si sono dati i grandi recensori. Ma la cosa più importante è che in quelle voci poetiche a tratti percepisco della solitudine. Forse scrivere significa rendere partecipe gli altri della propria solitudine. Alcuni potrebbero dire: ti sbagli, molti vogliono comunicare il loro trauma. Ma io non forzerei troppo la mano a rispondere che un trauma è non solo un punto di rottura ma un momento per antonomasia in cui ci si ritrova soli e nessuno ci aiuta. Cantava Venditti in una canzone molto intimista nei primi anni '70: "Le cose della vita fanno piangere i poeti, ma se non le fermi subito diventano segreti". L'ascoltavo quando avevo 16 anni e non capivo a pieno la portata e il significato reale di questa canzone. La trovavo un poco oscura, un poco criptica. Mi ricordo ancora un filmato d'epoca della RAI: Venditti tutto impegnato che suona il  piano con capelli e barba lunghe. Più tardi avrei capito che con quella canzone che parlava di amore, incomprensione e solitudine Venditti sfidava la sua generazione, che voleva che a quei tempi si trattasse unicamente di politica. Anche il privato era politico allora. Poi Venditti ha scelto più tardi la strada del nazionalpopolare,  della semplificazione a tutti i costi, del voler essere commerciale, ma forse sentiva nel suo intimo in questo modo di andare incontro alle persone. Oggi mi sembra di capirla molto di più quella canzone. Mi sembra che sia un abito che mi sia stato cucito addosso.  Mi sembra che sia una delle canzoni per il testo e per l'atmosfera creata che più rappresentano la mia vita, anche se Venditti si rivolgeva a una donna amata e io invece sono solo. Molti anni fa sempre Venditti scriveva in un'altra sua canzone: "La solitudine è una strana compagna/ Lei ti sorride come una puttana/ E poi ti lascia senza il fiato per poter gridare". In questi versi esprime in modo significativo e poetico pro e contro della solitudine, illusione e delusione dell'essere soli. Venditti allude al rapporto impersonale per eccellenza, quello con una prostituta, che può togliere le voglie, essere un modo estremo per rompere la solitudine, ma è anche una "pubblica moglie" che fa sesso frettolosamente con tutti: tutto ciò è testimoniato dal fatto che le prostitute fanno sesso ma preservano una parte della loro intimità,  non baciando in bocca neanche i clienti più incoscienti e più focosi. Ma in fondo cosa importa della solitudine e dell'amore? Un tempo scrivevo poesie rivolgendomi a una figura femminile che non esisteva in quel presente. Il mio era un tu imprecisato. Ma a chi importa? Morirò e a nessuno importerà niente delle mie parole scritte. Le ragazze e le donne di cui mi sono innamorato moriranno e ai posteri non interesserà in alcun modo la loro bellezza o il loro fascino. Ci sono dei  versi bellissimi e terribili di Alda Merini della sua poesia "Per Milano": "Milano dagli irti colli/ che ha veduto qui/ crescere il mio amore/ che ora è defunto". Per citare Zanzotto, capovolgendolo, non siamo fatti per "durare tra le albe" perché forse non c'è niente che "farà verità della nostra menzogna". 

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    Sull'autofiction e altre menate…

    Leggevo di recente un articolo del poeta e scrittore Roberto Pazzi in cui si lamentava del fatto che oggi vada per la maggiore l'autofiction (Saviano, Giuseppe Genna, Walter Siti, Teresa Ciabatti, etc) e sia troppo diffuso il "microautobiografismo". Secondo questa scuola di pensiero troppi autori sono egoriferiti, sono troppo coinvolti emotivamente, non riescono a mettere a distanza le loro cose d... Altro...
    Leggevo di recente un articolo del poeta e scrittore Roberto Pazzi in cui si lamentava del fatto che oggi vada per la maggiore l'autofiction (Saviano, Giuseppe Genna, Walter Siti, Teresa Ciabatti, etc) e sia troppo diffuso il "microautobiografismo". Secondo questa scuola di pensiero troppi autori sono egoriferiti, sono troppo coinvolti emotivamente, non riescono a mettere a distanza le loro cose della vita, non riescono a utilizzare un sufficiente distacco (forse semplifico, ma in realtà certe ragioni vengono sottintese e mai esplicitate). A tale riguardo scrivevo in tempi non sospetti, ovvero 30 anni fa, che la vita è un'immagine che si può mettere a fuoco solo quando si è distanti. Ma secondo un'altra scuola di pensiero "Madame Bovary c'est moi", così come è sempre valido il detto veneto "pittore parla dei quadri", ovvero noi stessi siamo la materia che conosciamo meglio (questo secondo molti. Alcuni come il poeta Vittorio Orlando affermano che l'unico progresso è quello interiore). Secondo questa seconda scuola di pensiero perché dovremmo inventare eventi o personaggi quando possiamo prendere a piene mani dalle nostre vite? In fondo mi chiedo io chi ha detto che per passare dal particolare all'universale bisogna per forza trasfigurare e creare? Perché non attingere totalmente o quasi dalle nostre vite? Perché non trattare di noi invece di creare mondi fittizi? Aggiungo anche che le neuroscienze hanno dimostrato, grazie all'utilizzo della risonanza magnetica funzionale, che la mente umana attiva undici aree cerebrali ogni volta che immagina, ma è anche vero che immaginare non è creare ex novo o creare ex nihil. L'immaginazione umana manipola e combina vecchie immagini. Che poi le immagini mentali ci suggestionino e influenzino direttamente la nostra vita è vero, ma è altrettanto vero che anche l'artista con più immaginazione inizia sempre dal materiale preesistente della sua vita. L'autofiction è perfettamente in linea con tutto ciò.  E allora perché deve essere visto male parlare di sé? Perché uno scrittore deve parlare d'altro per poi finire immancabilmente di parlare di sé stesso? Perché fingere totalmente ? Perché parlare d'altro!? Perché fare un gioco di sponda? Perché traslare? Perché non affrontare subito e in tutta onestà ciò che ci sta più a cuore o forse ciò che ci riguarda di più, ovvero noi stessi? Chi ha detto poi che dei fatti biografici non possano creare empatia e rispecchiamento? Forse l'autofiction è il punto d'incontro ottimale tra realtà e finzione. Certo parlare di sé significa avere più remore, significa autocensurarsi, avere più inibizioni, andare incontro a disapprovazione sociale, ma è altrettanto vero che scrivere significa mettersi a nudo. Poi ci potrebbero essere delle grane legali a parlare troppo della propria vita. Se uno scrive di fantasia ogni riferimento è puramente casuale. Se il libro è autobiografico ogni riferimento può essere causale e possono perciò fioccare le querele. Forse anche in questo caso l'autofiction è la strada migliore. Inoltre oggi i libri subiscono un editing molto forte in nome del politicamente corretto: questo forse vuol dire che in fondo è più ammissibile per il pubblico una storia inventata con alcune venature maschiliste per esempio che un romanzo autobiografico, dato che nel primo caso uno si può sempre difendere dicendo che punto di vista dell'autore e quello della voce narrante non necessariamente coincidono. Se un lettore moralista vuol pensare male lo farà anche di fronte a una storia erotica inventata di sana pianta, sostenendo che certe cose per scriverle così bene bisogna averle provate. Certo c'è anche chi ce l'ha con l'autofiction perché troppo confessionale, troppo intima. Sarebbe prima di tutto una questione di pudore, di discrezione per taluni, fino a sentenziare che i fatti propri di questo o quell'autore non interessano a nessuno. Ma allo stesso tempo non tutta la fantascienza, non tutto il fantasy o non tutto il realismo magico interessano ai più! Un altro motivo per cui si può criticare l'autofiction è la parte saggistica in ogni suo romanzo oppure quella metaletteraria. C'è anche chi dice che con l'autofiction non hanno inventato niente perché essa esisteva da secoli. C'è infine chi non critica totalmente il genere, ma pensa che l'autofiction dovrebbe essere scritta meglio. Insomma come al solito in molti si azzuffano e i libri non si vendono. In tutta onestà non tutti i dettami della critica devono per forza corrispondere al vero, così come non sempre il successo di un genere decretato dal pubblico deve per forza essere garanzia certificata di chissà quale qualità. Che poi sia che un autore si rivolga all'interno o all'esterno ci sarà pur sempre una concavità o una convessità, una introflessione o una estroflessione: insomma la lente sarà sempre deformante, ci saranno perciò sempre delle deformazioni nell'opera. Che cosa c'è davvero di oggettivo nell'arte e nel mondo interiore? Quando uno studente chiese al grande matematico  Caccioppoli quale fosse la legge più vera in assoluto, ebbene lui rispose: "Al cuore non si comanda". Un altro grande matematico, Galois, fu la dimostrazione che "al cuore non si comanda": fece un duello per difendere la donna che amava e sempre per amore, questa volta della sua disciplina, rivide e corresse tutti i suoi appunti la notte prima del duello in cui morì. In definitiva mi sembra che queste due scuole di pensiero (pro autofiction o contro) ripropongano in piccola parte l'antica disputa realismo/idealismo. Ritengo che la scelta artistica di trattare di sé o di altri può maturare in base all'introversione/estroversione dell'autore e quindi dalla sua personalità di base. C'è sempre un orientamento verso l'io o il mondo, una predilezione accentuata. Nessuno riesce a stare a metà strada tra queste due polarità. Forse non è una caratteristica umana riuscire a trovare l'equilibrio e anche l'armonia tra le due cose. Io e mondo sono mutuamente esclusivi. Ci sono autori che hanno un atteggiamento quasi schizoide sulla polarità da scegliere. Kafka scrisse: "Non esiste altro mondo fuorché il mondo spirituale. Quello che noi chiamiamo mondo sensibile è il Male del mondo spirituale". Sempre Kafka in "Quaderni in ottavo" scriveva: "Quanto misera è la conoscenza che ho di me stesso, paragonata – poniamo – a quella che ho della mia stanza. Perché? Non esiste un’osservazione del mondo interiore, come ne esiste una del mondo esterno. La psicologia descrittiva è in complesso un antropomorfismo, un modo di intaccare i limiti. Il mondo interiore si può solo vivere, non descrivere. – La psicologia è la descrizione del rispecchiarsi del mondo terreno sulla superficie celeste, o meglio: la descrizione di un rispecchiamento, come ce lo immaginiamo noi, creature impregnate di terra, perché in realtà non c’è alcun rispecchiamento, siamo solo noi che vediamo terra dovunque ci volgiamo". È difficile trovare l'equilibrio interiore, ma altrettanto è difficile trovare quello artistico. È difficile scegliere dove volgersi, se verso lo scavo di sé o verso l'estensione nel mondo. A ogni modo non bisogna scegliere in base alle mode del momento, ma in base a ciò che sentiamo noi stessi dentro. Ben sapendo che qualsiasi cosa scegliamo ci sarà qualcuno che ce lo rinfaccerà. Comunque sia, come ha detto Walter Siti: "“Lo stile non si preoccupa del like”.

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    Pensieri al bar durante una birra…

    Il rischio è che il pensiero della fine, della mia fine diventi la fine del mio pensiero. Ma c'è un pericolo molto più grave che incombe sulle nostre teste, ovvero che il pensiero della fine della nostra civiltà si tramuti nella fine del pensiero della nostra civiltà.  Non è purtroppo un semplice gioco di parole. Non è un bisticcio di parole. Sto ragionando su queste cose mentre mi sto... Altro...

    Il rischio è che il pensiero della fine, della mia fine diventi la fine del mio pensiero. Ma c'è un pericolo molto più grave che incombe sulle nostre teste, ovvero che il pensiero della fine della nostra civiltà si tramuti nella fine del pensiero della nostra civiltà.  Non è purtroppo un semplice gioco di parole. Non è un bisticcio di parole. Sto ragionando su queste cose mentre mi sto bevendo una birra. La ragazza del bar mi ha chiesto se ho appena staccato dal lavoro e io le ho risposto che sono disoccupato.  Poi mi sono seduto e ho iniziato a pensare. Mi basta una birra. Mi serve a evadere dai soliti schemi mentali. Mi sono messo in un angolo in disparte. La prima cosa che penso è che aveva ragione Voltaire quando nel Candido scriveva che il lavoro tiene lontani gli uomini da tre mali, ovvero "la noia, il vizio, il bisogno". Poi la barista parla con un tipo. In parte ascolto la loro conversazione, in parte penso. Può darsi che la mia fine e quella della nostra civiltà siano imminenti (molto probabilmente è certa non solo la mia fine ma anche quella della nostra civiltà), però non bisogna abbattersi, non bisogna abbandonare la nostra ragione perché è quel poco che abbiamo,  che ci dobbiamo tenere stretti.  Infatti si può accedere alle filosofie irrazionaliste solo con la nostra razionalità; il razionalismo diventa perciò strumento e premessa indispensabile dell'irrazionalismo. In fondo siamo nella maggioranza dei casi razionalisti e anche coloro che abbracciano filosofie irrazionaliste per capirle devono utilizzare molto la ragione per capirle. A onor del vero qualsiasi uomo di cultura è una mistura, un gran calderone di razionalità e irrazionalismo. In definitiva la premessa di alcune forme di irrazionalismo è che la ragione, la metafisica, la scienza non siano sufficienti per comprendere la realtà,  fino a giungere all'irrazionalismo più radicale, ovvero che tutto sia governato dal caso e che la realtà,  la stessa vita non abbiano un senso. Non mi spaventa il discrimine filosofia razionalista/filosofia irrazionalista perché qualsiasi filosofia non può collocarsi fuori dalla ragione. Le filosofie irrazionaliste postulano con gli strumenti della ragione l'irrazionalismo. In fondo Nietzsche e compari denunciano il nichilismo della nostra civiltà.  Mi spaventa invece  la mancanza di razionalità che sta dietro la totale ignoranza umanistica. Mi spaventa l'irrazionalismo che vorrebbe mettere da parte ogni cultura umanistica, finendo così per metterla definitivamente in crisi: è un irrazionalismo ben presente nella razionalità scientista ed è molto più insidioso di quello dei filosofi irrazionalisti. Infatti le filosofie irrazionaliste per fare danni dovrebbero veramente avere presa nella popolazione ma perché ciò accadesse dovrebbero essere conosciute a fondo da gran parte della popolazione: la cosa invece non accade perché esse non sono popolari, influenzano e autoesaltano una sparuta minoranza di persone. Ma mi rendo conto che anche Heidegger in buona parte la pensava così, che razionalismo e irrazionalismo si intrecciano vicendevolmente, che non c'è modo per distinguerli veramente. È vero che nelle scienze umane è stato dimostrato che non siamo solo ricercatori di ordine e coerenza, che la nostra razionalità è limitata. Ma almeno in psicologia queste scoperte di alcuni decenni fa non sono state la premessa di alcuna psicologia irrazionalista. Un altro rischio è insito in certo cristianesimo equivocato, secondo cui bisogna pregare tralasciando la ragione, secondo cui la cultura è presunzione oppure secondo cui  la cultura laica allontana dalla fede. Bisognerebbe ricordarsi che per Sant'Agostino fede e ragione non si escludevano, così come si dovrebbe ricordarsi che si può usare la ragione e avere fede, speranza, carità.  Scrivevo che non bisogna abbandonare il pensiero, per quanto non si possano concepire la vita e il mondo solo con il pensiero. È vero che c'è la minaccia costante che ogni cultura si riveli fasulla, che ogni pensiero si riveli improduttivo di fronte a qualsiasi tipo di fine, ma dobbiamo immaginare il pensiero, almeno quello della nostra civiltà,  come immortale. Forse finirà la nostra civiltà ma quasi certamente sopravviverà il pensiero, la cultura di quella civiltà. Certamente c'è anche il rischio dell'Apocalissi,  allora c'è la minaccia annessa e connessa della tabula rasa, della scomparsa completa della civiltà. Ma perché essere così pessimisti e pensare che per forza di cose tutto debba finire? In fondo Cioran scriveva che una nuova civiltà verrà fatta con  i reietti della vecchia civiltà. Chi l'ha detto che il cosiddetto ricambio generazionale debba per forza di cosa celebrare il passaggio dai padri ai figli e non debba invece coinvolgere i reietti, gli eslegi? In fondo Cristo gridava contro i farisei e apriva le porte dei cieli ai pubblicani, alle prostitute, ai ladroni. Ci deve consolare il fatto che l'umanità,  se si saprà salvaguardare, può essere immortale. A volte però penso egoisticamente che può anche non interessarmi questo scenario futuribile dell'Apocalissi in quanto non lascerò al mondo dei figli. Ma a volte ci penso a coloro che verranno, anche se qui si naviga a vista, tra molte incertezze, spaesamenti,  incognite. Probabilmente non posso fare niente di concreto, di tangibile per loro.  Posso solo continuare a pensare tra mille difficoltà, ringraziando Dio e un poco me stesso perché non mi autodistruggo, e forse questo è già un primo passo, forse è già qualcosa. Mi alzo. Ho già pagato il conto. Ho finito la birra. Dico alla barista che mi ci voleva proprio una birra. Auguro buona giornata, saluto ed esco. Ritorno a casa. 

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    Fare luce in sé e comunicare la solitudine…

    Succede che scrivo per fare chiarezza dentro me, per fare luce in me. A volte c'è un poco di confusione o un poco di combattimento in me e allora butto giù qualche riga per chiarirmi le idee o per riappacificarmi con me stesso e/o con il mondo. Scrivere significa allora approfondire, cercare un poco di verità in sé stessi, nei propri pensieri. Scrivere è prima di tutto una presa di coscienza ... Altro...

    Succede che scrivo per fare chiarezza dentro me, per fare luce in me. A volte c'è un poco di confusione o un poco di combattimento in me e allora butto giù qualche riga per chiarirmi le idee o per riappacificarmi con me stesso e/o con il mondo. Scrivere significa allora approfondire, cercare un poco di verità in sé stessi, nei propri pensieri. Scrivere è prima di tutto una presa di coscienza della notte che sta attraversando il mio animo e non solo, ma anche tutto il mondo. Inoltre in ogni mio scritto è molto spesso presente anche il tu dialogico, seppure  in forma implicita. Come in certi poeti che si rivolgono a una figura femminile, la evocano, sebbene questa li abbia delusi, traditi, respinti. La relazione dialogica, per dirla alla Buber, è una necessità di chiunque. Scrivo per mettere ordine in me stesso, per cercare di mettere in ordine il mio mondo. Non cerco fama né gloria postuma; ogni scritto di autore defunto è una traccia che sarà dimenticata nella stragrande maggioranza dei casi o sbiadita dal tempo e trasmessa a pochissimi: nel migliore dei casi è come una casa di contadini fatiscente  in cui non abiterà più nessuno o come una fabbrica dismessa che non servirà più a nessuno. I miei scritti sono testimonianza del mio (non) pensiero. Potete tacciarmi di essere uno pseudointellettuale o uno stupido, salvo poi idolatrare Gio Evan o Jovanotti come grandi maestri di pensiero e grandi poeti. Un tempo però avevo più bisogno degli altri. Cercavo conferma, rispecchiamento, affinità, simpatia dagli altri. Era presente in me l'istanza degli altri. Oggi mi accontento di scrivere, di immaginare e trovare gli altri dentro me, dato che in fondo gli altri li ho già interiorizzati. A ogni modo, da soli o in compagnia, una cosa è certa: la nostra mente è relazionale. Noi viviamo di relazioni. Anche stare da soli è un modo di relazionarsi con sé stessi.  Il problema è che ci sentiamo soffocati quando le relazioni non le percepiamo come autentiche. C'è chi trova fratture nel proprio sé ed è in crisi  con sé stesso. C'è chi ha dei blocchi comunicativi con gli altri ed è in crisi con gli altri. Avere senso del limite non significa solo accettare la nostra finitezza ma anche riconoscere  che abbiamo bisogno degli altri. Tutto questo è di facile comprensione, di facile acquisizione,  per qualcuno è pure ovvio e scontato,  però partire da questi presupposti per vivere concretamente la nostra vita è molto più difficile. Ci sono persone che non chiedono aiuto e allora si autodistruggono. A ogni modo  come scrisse Kierkegaard ogni uomo è solo di fronte a Dio. Per questa ragione scrivere e parlare sono fondamentali per comunicare la solitudine. In buona parte dei  casi per stare un minimo bene ci vuole il dono di sé a  qualche altra persona e dobbiamo ricevere il dono altrui. Dobbiamo però chiedere di volta in volta a noi stessi di cosa abbiamo veramente bisogno, che cosa ci fa stare veramente bene o veramente male, che cosa ci dà piacere e cosa è tossico. Leggevo l'ultimo numero della rivista Atelier. Leggevo che per il poeta Franco Buffoni la parola è per definizione sinallagmatica, cioè mette sempre in relazione noi con qualsiasi cosa, con qualsiasi parte di noi stessi, con qualsiasi altra persona. Ma veniamo a me.   Personalmente io oggi ho i miei familiari.  Non ho bisogno di fare le ore piccole per cercare una donna disperatamente. Non ho bisogno di affittare una prostituta e portarla in un albergo a una stella. Non ho bisogno ogni giorno di assillare un amico per cercare di fare quattro chiacchiere con lui. Non ho bisogno di recarmi in locali sovraffollati per avere l'impressione di stare con gli altri (non me ne importa niente del fatto che, come si suol dire, gente fa gente). Ma scrivere non è neanche per forza di cose uno sfogo, una consolazione: se così fosse chiederei troppo, chiederei l'impossibile alla scrittura. Scrivere per me significa avere a che fare con me; significa cercare un poco di raccoglimento interiore; significa migliorare la conoscenza interiore. La domanda che potrebbe sorgere spontanea è: cosa cerchi in te che gli altri non ti possono dare? Io potrei allora controbattere con un'altra domanda: cosa devo cercare negli altri che non posso trovare in me stesso? A seconda degli eventi, delle circostanze, della personalità di base, della mentalità possiamo cercare in noi stessi o negli altri, possiamo orientarci verso di noi o verso gli altri, ma importante è non smettere di cercare. Alla base di tutto nella vita deve esserci la ricerca e non conta se è più ricerca dell'altro o di noi stessi, anche perché può accadere che si cerchi gli altri in noi stessi oppure sé stessi negli altri, in un gioco perenne di identificazioni, introiezioni,  proiezioni. A volte penso che, al di là della dicotomia io/altri, forse la realtà è che ognuno, facendo spesso tentativi maldestri, cerca in sé stesso, negli altri, nel mondo Dio o la sua parvenza. Allora forse questa è la ricerca più vera, questo è l'incontro più autentico. Eppure è così difficile. Chi è veramente Dio in questo trambusto di religioni e di profeti? Ognuno chiama a sé seguaci, fedeli, adepti. Molti pensano che Dio sia con loro, dimenticandosi che sulle cinture dei soldati dell'esercito nazista c'era scritto "Gott mitt uns" (Dio è con noi). Come saper riconoscere la vera voce di Dio  quando la maggioranza crede negli idoli e nel vitello d'oro? In definitiva mi chiedo dove sta la verità, quale sia l'ipostasi delle cose e dove sia Dio in questo mondo di brutture. Ma è una domanda che si fanno molti nel loro cuore e che non trova mai una risposta certa. Alcuni si arrogano il diritto di giudicare, ma fingono a sé stessi. La verità è che anche chi ha fede, per onestà con sé stesso e con gli altri, deve coltivare il dubbio.

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