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    Precarietà

    Dopo esser sceso dal tram e aver fatto un tratto di strada a piedi, sotto la leggera pioggia di novembre che schiariva i lastroni del viale, infilò le chiavi nella serratura e, poggiando cappello e cappotto su una sedia andò verso la camera da letto. Una donna bionda con gli occhi color cenere stava sdraiata sul letto rannicchiata su un lato, sotto il lume di una vecchia lampada. La finestra fac... Altro...

    Dopo esser sceso dal tram e aver fatto un tratto di strada a piedi, sotto la leggera pioggia di novembre che schiariva i lastroni del viale, infilò le chiavi nella serratura e, poggiando cappello e cappotto su una sedia andò verso la camera da letto. Una donna bionda con gli occhi color cenere stava sdraiata sul letto rannicchiata su un lato, sotto il lume di una vecchia lampada. La finestra faceva filtrare appena la luce dei lampioni e delle insegne al neon dei negozi sottostanti; dai vetri sottilissimi si sentiva il rombo delle macchine che sfrecciavano e l’inutilità del tempo che passava. L’uomo si sedette sull’altra estremità del letto dando le spalle alla donna.

    «Hai letto non è vero?» Disse poi con un filo di voce dovuta alle troppe sigarette e alla solennità di quel momento tanto intimo quanto estraneo.

    La donna non rispose, quel silenzio si annidò nella mente dell’uomo: in un niente dedusse che si trattava di un silenzio affermativo.

    «Non sarà la fine del mondo, ho già parlato con un avvocato, dovrebbero darmi al massimo qualche anno, in appello potrei sperare nei domiciliari».

    La donna continuava a stare in silenzio, l’uomo percepiva tuttavia la sua sensazione di disagio, avrebbe voluto che tutto terminasse con una frase rassicurante e con qualche carezza ma certe cose ormai non accadevano più da molto tempo.

    «Sì, insomma… in caso di domiciliari troveremo un modo, potrei andare nella casa al mare, oppure qualche mio amico potrebbe trovarmi una sistemazione in un altro posto».

    «Quando ero bambina» disse la donna con voce strozzata «mi chiedevo spesso come facessero gli animali ad avvertire con anticipo tremendo le situazioni di pericolo, fu mia madre che mi disse poi un giorno, quando superai la vergona di chiedere, che gli animali hanno determinate capacità che si potrebbero racchiudere in un unico termine: istinto».

    L’uomo si passò la mano tra i capelli e stava per rispondere a questo acuto, quanto provocatorio ragionamento, quando la donna riprese.

    «Perlomeno hai preso una decisione» disse poi con voce più sicura. Questa volta era l’uomo che rispose con il silenzio che invitava la donna a proseguire «in trent’anni di matrimonio non ti ho mai visto prendere una posizione, nemmeno quando ordini al ristorante, ma che razza di vita è? Questo è trascorrere, non è vivere. Mai una volta che ti avessi visto con fermezza battere i pugni sul tavolo e rivendicare una tua decisione, un tuo diritto… anche un tuo errore. Mai una volta in cui ti ho visto difendere le scelte di nostro figlio o mostrare un po’ di gelosia nei miei confronti».

    «La gelosia è un sentimento tormentoso» disse l’uomo mentre si accendeva una sigaretta e portava a sé il posacenere poggiato sul comodino «non ho mai provato gelosia per te perché mi fido, è una cosa che puoi capire? Riesci ad accettarlo?»

    La donna sorrise ma la soddisfazione di vederla fu solo della finestra e del termosifone laccato proprio di fronte al suo sguardo.

    «Hai semplicemente paura» fece poi «hai sempre avuto il timore di ferire qualcuno, di ferire me. Hai sempre avuto paura di perdermi, che magari un giorno, tornando a casa non mi avresti più ritrovata e sono sicura che se ciò fosse successo - e fidati ci ho pensato - tu non mi avresti nemmeno cercata e sai perché?»

    «No».

    «Perché avresti avuto paura di conoscere le cause, avresti avuto paura di sapere cose che in qualche modo avrebbero destabilizzato il tuo animo così sensibile e privo di interesse. Persino quando ci siamo sposati ho avvertito nella tua risposta un atteggiamento restìo al punto che il prete ci ha fatto baciare se non solo per amore, anche per evitare che tutto finisse prima di cominciare. Hai sempre avuto paura per egoismo».

    L’uomo fissava il parquet, le sue scarpe di camoscio sporche di cenere e sentiva il respiro regolare della donna.

    «Siamo invecchiati così in fretta» disse poi prima aspirare altro fumo.

    «Perlomeno stavolta hai preso una decisione» ribadì la donna.

    «A dire il vero» fece l’uomo «la decisione non è stata del tutto mia. Sì… era mia intenzione ma è stato il consiglio a farmi pressioni, gli azionisti non avrebbero tollerato ancora la mia presenza e così hanno optato per le mie dimissioni».

    La donna si voltò di scatto e poi scoppio a ridere, una risata a tratti isterica, incontrollabile liberatoria. L’uomo si volto e con gli occhi lucidi guardava quella figura stesa sul letto che si contorceva e poi rise di gusto anche lui, lo fecero per qualche minuto e poi tornò il silenzio.

    «E ora che faremo?» Disse poi alla donna.

    «Quello che abbiamo sempre fatto per trent’anni: faremo finta di niente. Continueremo a farci scivolare la vita addosso ignorando reciprocamente le paure che incombono, l’ignoto è una creazione moderna, se non vedi niente non esiste niente. È questa la chiave».

    Strinse la mano dell’uomo e con lo sguardo mostrò complicità e distanza. L’uomo era accaldato e rassicurato, accennò appena un abbozzo di sorriso.

    «Vivremo così» continuò lei «in precarietà, come abbiamo sempre fatto… continuando ad amarci e rispettarci nella più totale assenza».

    La donna si alzò, voltò dall’altro lato del letto e carezzò i capelli dell’uomo arruffandoli. Questo gesto che non avveniva da molto tempo scosse appena l’animo dell’uomo.

    Poco dopo si alzò anche lui e la raggiunse, la vide lenta camminare nel corridoio: nella penombra le poggiò la testa sulla spalla, l’abbracciò come fanno due complici e in quell’istante, così intimo ed estraneo, si sentirono entrambi al sicuro.

    Fuori pioveva ancora.

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    Pensieri al bar durante una birra…

    Il rischio è che il pensiero della fine, della mia fine diventi la fine del mio pensiero. Ma c'è un pericolo molto più grave che incombe sulle nostre teste, ovvero che il pensiero della fine della nostra civiltà si tramuti nella fine del pensiero della nostra civiltà.  Non è purtroppo un semplice gioco di parole. Non è un bisticcio di parole. Sto ragionando su queste cose mentre mi sto... Altro...

    Il rischio è che il pensiero della fine, della mia fine diventi la fine del mio pensiero. Ma c'è un pericolo molto più grave che incombe sulle nostre teste, ovvero che il pensiero della fine della nostra civiltà si tramuti nella fine del pensiero della nostra civiltà.  Non è purtroppo un semplice gioco di parole. Non è un bisticcio di parole. Sto ragionando su queste cose mentre mi sto bevendo una birra. La ragazza del bar mi ha chiesto se ho appena staccato dal lavoro e io le ho risposto che sono disoccupato.  Poi mi sono seduto e ho iniziato a pensare. Mi basta una birra. Mi serve a evadere dai soliti schemi mentali. Mi sono messo in un angolo in disparte. La prima cosa che penso è che aveva ragione Voltaire quando nel Candido scriveva che il lavoro tiene lontani gli uomini da tre mali, ovvero "la noia, il vizio, il bisogno". Poi la barista parla con un tipo. In parte ascolto la loro conversazione, in parte penso. Può darsi che la mia fine e quella della nostra civiltà siano imminenti (molto probabilmente è certa non solo la mia fine ma anche quella della nostra civiltà), però non bisogna abbattersi, non bisogna abbandonare la nostra ragione perché è quel poco che abbiamo,  che ci dobbiamo tenere stretti.  Infatti si può accedere alle filosofie irrazionaliste solo con la nostra razionalità; il razionalismo diventa perciò strumento e premessa indispensabile dell'irrazionalismo. In fondo siamo nella maggioranza dei casi razionalisti e anche coloro che abbracciano filosofie irrazionaliste per capirle devono utilizzare molto la ragione per capirle. A onor del vero qualsiasi uomo di cultura è una mistura, un gran calderone di razionalità e irrazionalismo. In definitiva la premessa di alcune forme di irrazionalismo è che la ragione, la metafisica, la scienza non siano sufficienti per comprendere la realtà,  fino a giungere all'irrazionalismo più radicale, ovvero che tutto sia governato dal caso e che la realtà,  la stessa vita non abbiano un senso. Non mi spaventa il discrimine filosofia razionalista/filosofia irrazionalista perché qualsiasi filosofia non può collocarsi fuori dalla ragione. Le filosofie irrazionaliste postulano con gli strumenti della ragione l'irrazionalismo. In fondo Nietzsche e compari denunciano il nichilismo della nostra civiltà.  Mi spaventa invece  la mancanza di razionalità che sta dietro la totale ignoranza umanistica. Mi spaventa l'irrazionalismo che vorrebbe mettere da parte ogni cultura umanistica, finendo così per metterla definitivamente in crisi: è un irrazionalismo ben presente nella razionalità scientista ed è molto più insidioso di quello dei filosofi irrazionalisti. Infatti le filosofie irrazionaliste per fare danni dovrebbero veramente avere presa nella popolazione ma perché ciò accadesse dovrebbero essere conosciute a fondo da gran parte della popolazione: la cosa invece non accade perché esse non sono popolari, influenzano e autoesaltano una sparuta minoranza di persone. Ma mi rendo conto che anche Heidegger in buona parte la pensava così, che razionalismo e irrazionalismo si intrecciano vicendevolmente, che non c'è modo per distinguerli veramente. È vero che nelle scienze umane è stato dimostrato che non siamo solo ricercatori di ordine e coerenza, che la nostra razionalità è limitata. Ma almeno in psicologia queste scoperte di alcuni decenni fa non sono state la premessa di alcuna psicologia irrazionalista. Un altro rischio è insito in certo cristianesimo equivocato, secondo cui bisogna pregare tralasciando la ragione, secondo cui la cultura è presunzione oppure secondo cui  la cultura laica allontana dalla fede. Bisognerebbe ricordarsi che per Sant'Agostino fede e ragione non si escludevano, così come si dovrebbe ricordarsi che si può usare la ragione e avere fede, speranza, carità.  Scrivevo che non bisogna abbandonare il pensiero, per quanto non si possano concepire la vita e il mondo solo con il pensiero. È vero che c'è la minaccia costante che ogni cultura si riveli fasulla, che ogni pensiero si riveli improduttivo di fronte a qualsiasi tipo di fine, ma dobbiamo immaginare il pensiero, almeno quello della nostra civiltà,  come immortale. Forse finirà la nostra civiltà ma quasi certamente sopravviverà il pensiero, la cultura di quella civiltà. Certamente c'è anche il rischio dell'Apocalissi,  allora c'è la minaccia annessa e connessa della tabula rasa, della scomparsa completa della civiltà. Ma perché essere così pessimisti e pensare che per forza di cose tutto debba finire? In fondo Cioran scriveva che una nuova civiltà verrà fatta con  i reietti della vecchia civiltà. Chi l'ha detto che il cosiddetto ricambio generazionale debba per forza di cosa celebrare il passaggio dai padri ai figli e non debba invece coinvolgere i reietti, gli eslegi? In fondo Cristo gridava contro i farisei e apriva le porte dei cieli ai pubblicani, alle prostitute, ai ladroni. Ci deve consolare il fatto che l'umanità,  se si saprà salvaguardare, può essere immortale. A volte però penso egoisticamente che può anche non interessarmi questo scenario futuribile dell'Apocalissi in quanto non lascerò al mondo dei figli. Ma a volte ci penso a coloro che verranno, anche se qui si naviga a vista, tra molte incertezze, spaesamenti,  incognite. Probabilmente non posso fare niente di concreto, di tangibile per loro.  Posso solo continuare a pensare tra mille difficoltà, ringraziando Dio e un poco me stesso perché non mi autodistruggo, e forse questo è già un primo passo, forse è già qualcosa. Mi alzo. Ho già pagato il conto. Ho finito la birra. Dico alla barista che mi ci voleva proprio una birra. Auguro buona giornata, saluto ed esco. Ritorno a casa. 

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