La primavera era alle porte. La temperatura non era ancora così mite e un vento che scendeva da nord, portava ricordi di un inverno appena passato.
Io indossavo il mio k-way verde e a dire il vero, era ancora un po’ azzardato, vista la temperatura ancora bassina. Inoltre non era nemmeno una bella giornata. Il cielo si stava colorando di un blu scuro e solo pochi raggi di sole filtravano fra le nuvole e i rami degli alberi del giardino comunale. Me ne stavo seduto su una panchina, ovviamente sullo schienale. Gli adolescenti devono sempre distinguersi in qualche modo. Avevo la mente vuota. Aspettavo solo il momento in cui sarebbe arrivata. Io quel giorno non ero andato a scuola. La sera prima al telefono mi aveva detto che ormai era deciso e io non avevo voglia di farmi vedere dai compagni di classe. Se vuoi essere uomo, non devi mai mostrare le tue debolezze, devi sempre nascondere le tue emozioni.
La vidi salire la scalinata d’ingresso e avvicinarsi a passo lento, proprio come in una scena da film al rallentatore. Portava lo zaino dei libri con entrambe le tracolle sulle spalle. Il suo zaino era bianco con dei motivi floreali; oserei dire elegante. Il mio era pieno di scritte, soprattutto stupide e non credo di averlo mai portato con entrambe le tracolle se non nel tragitto casa scuola col mio motorino a marce, che per allora, sul finire degli anni ottanta, suscitava ammirazione e invidia da parte di amici e compagni di scuola.
Indossava un impermeabile bianco panna, che metteva in risalto ancor di più i suoi capelli neri. Aveva anche un piccolo ombrello che teneva al polso legato con un laccetto.
Mentre si avvicinava, ad ogni passo, i riccioli neri sussultavano e si muovevano al ritmo della camminata. Dio quanto adoravo quei riccioli. I pochi raggi di sole le mettevano in risalto ancor di più quei riflessi lucidi di quei boccoli che a lei non piacevano molto e che io la prendevo in giro dicendole che sembravano fatti di liquirizia. Mi faceva la lingua, ma con gli occhi rideva.
“Ciao”.
“Ciao”.
Un saluto banale? No. Il suo ‘Ciao’ era leggermente sospirato e per me era caldo come il sole d’estate. Due occhi nocciola con delle piccole sfumature di verde, occhi che rapivano, che non avresti mai smesso di guardare. Oggi, messi in risalto da un ombretto viola.
Ferma davanti a me, con le mani poggiate sulle mie ginocchia, si avvicinò col viso e mi baciò le labbra.
Il bacio racchiude il sapore più dolce del mondo. In quell’attimo, il cuore si ferma, il mondo si ferma e semplicemente ti senti bene come non mai.
Le presi le mani e rimanemmo in silenzio per un po’, persi negli occhi l’una dell’altro. Poi, le nostre fronti si toccarono. Entrambi lo sguardo basso.
“E così, è deciso ormai”, le chiesi.
“Sì”, rispose e non aggiunse altro.
Stringemmo forte le mani. Io tenni chiusi gli occhi e mi concentrai sul suo profumo. Lo volli scolpire fortemente in un angolo del mio cuore, sapendo che un giorno lo avrei ricordato e mi avrebbe strappato un piccolo sorriso. Di sicuro quel dolce ricordo mi avrebbe fatto compagnia in una brutta giornata, mentre magari me ne sarei stato da solo con la fronte sul vetro della finestra a guardare fuori la pioggia cadere.
“Quindi, torni in Puglia”, dissi. La decisione era irreversibile, ovviamente più grande di noi. L’addio inevitabile.
Ricordo ancora il primo giorno che la vidi. La scuola era iniziata da un mese circa e gli alberi attorno avevano già cominciato a cambiare colore. L’estate era ormai finita e sinceramente non fu una grande estate. Le solite cose, le solite routine estive, quell’anno, mi erano andate strette. Avevo voglia di qualcos’altro, di cambiamenti e nonostante andassi in giro con o senza amici, rimanevo in attesa di qualche evento che mi portasse una novità, una curiosità. Non successe nulla di che e l’estate passò lenta e placida come un fiume calmo che scende al mare, accompagnato dal canto dei grilli.
Quella mattina fui richiamato dall’insegnante un paio di volte o forse più, perché continuavo a guardar fuori dalla finestra. Non che di solito non lo facessi, anzi. Nella mia adolescenza non sono mai stato campione in niente, ma se ci fosse stata la specialità “testa fra le nuvole”, di sicuro sarei stato il numero uno.
Ma se per i primi richiami, la mia distrazione era dovuta solo alla noia e lo sguardo spaziava a tutto tondo, guardando in giro senza essere carpito da nulla, alla fine una cosa destò il mio interesse: una macchina scura era entrata nell’ingresso della scuola, aveva percorso il viale e si era fermata davanti all’edificio, proprio sotto la mia finestra. Per guardare chi fosse, sarei dovuto alzarmi dalla sedia e, avvicinatomi alla finestra, guardare giù di sotto. Mi costò molto non alzarmi. D’altro canto, in quella scuola dove si esigeva il massimo rispetto e la massima educazione in qualsiasi caso, di certo non ci si poteva alzare dal posto durante la lezione per guardare fuori dalla finestra. Quindi, la mia mente partì per un tour di ipotesi, facendo propendere il mio sguardo verso il cielo. Chissà se l’azzurro aiuta a pensare meglio.
La prof chiamò il mio nome e il tono faceva presagire a una conseguenza dovuta alla mia ennesima disattenzione, ma non fece in tempo ad andare oltre perché venne interrotta dal bussare alla porta dell’aula.
Era la bidella che aveva accompagnato una nuova studentessa in aula.
Fui subito rapito. Non riuscivo a non guardarla. Credo che la mia bocca fosse anche leggermente aperta. Era di sicuro la ragazza più bella che avessi mai visto.
Si chiamava Sara e veniva dalla Puglia. Aveva la pelle ancora ben abbronzata. Pensai che certamente giù al sud è estate fino alla fine di ottobre.
La famiglia, che per motivi di lavoro avevano costretto il padre a trasferirsi al nord, si era da poco sistemata in una casa in centro città e lei sarebbe diventata la nostra nuova compagna di classe, proseguendo gli studi qui da noi.
Aveva modi e gesti eleganti e il suo modo di porsi suggeriva umiltà. Dallo sguardo si capiva che era una ragazza semplice, ma sensibile. Sicuramente molto intelligente e soprattutto brava nello studio.
Un po’ il contrario del sottoscritto, arrivato in questa scuola spinto dal padre e mandato avanti a forza di calci nel didietro. Ovviamente io indossavo sempre dei jeans, delle scarpe da tennis e portavo una bandana legata al polso. Spesso, la merenda della ricreazione era una ‘cicca’ con gli amici.
“Sì, torno in Puglia”, rispose lei, mentre una lacrima le solcava il viso.
Strinsi forte gli occhi. Un piccolo dolore nel petto mi fece capire che era finita. La cosa più bella che mi fosse capitata nella vita, ora mi stava scivolando dalle dita.
Ma perché doveva andare così? Suo padre aveva deciso di ritornare in Puglia sempre per via del lavoro, il progetto di espansione aziendale non era andato a buon fine, quindi tutta la famiglia sarebbe tornata giù.
Era passato così poco tempo. Un inverno per conoscerci, un capodanno per innamorarci. E io non vedevo l’ora arrivasse la primavera e l’estate per portarla in giro col mio motorino a marce. Immaginavo strade di campagna e prati verdi. Nulla di tutto questo però, sarebbe stato con lei.
Avevamo quindici anni. Sapevamo che le nostre strade si sarebbero divise per sempre. Il rimanere in contatto con lettere e con qualche rara telefonata interurbana non sarebbe stata la stessa cosa di vedersi tutti i giorni.
Decidemmo di finire lì la nostra storia. L’ombretto viola era sceso sulle sue guance.
Le presi il viso fra le mani, la guardai per incidere nella memoria quel volto di cui ero innamorato dell’amore che solo in quella età si può provare. Di sicuro non l’avrei mai dimenticata e neppure lei mi avrebbe mai scordato. Ne sono convinto.
Presi l’indelebile nero e su quella panchina scrissi: “Sara e Marco, uniti e divisi da un gioco del destino”.
Poi, cominciò a piovere. Rimanemmo in piedi, l’uno di fronte all’altra, senza parlare, mentre la pioggia leggera cadeva su di noi. Lei fece per aprire l’ombrello, ma prima le presi nuovamente il volto fra le mani e le diedi l’ultimo bacio.
Non tornai più al parco comunale, se non l’anno successivo, quando, con una primavera alle porte, un vento freddo mi riportò più vivi che mai, i ricordi più belli di un amore breve, ma intenso.
La panchina era sempre là, ma la frase era stata coperta da altre scritte di altri ragazzi. Pazienza. Mi sedetti, ovviamente sempre sullo schienale. Guardai verso la scalinata d’ingresso. La rividi nella mia mente arrivare come l’anno prima, sempre coi boccoli neri che danzavano ad ogni suo passo, il suo sorriso dolce e quegli occhi che come calamite ti catturavano e non riuscivi più a distogliere lo sguardo. Chiusi gli occhi un istante e sentii ancora il suo profumo e le sue labbra sulle mie.
Presi il walkman dalla tasca del mio giubbino in jeans, misi le cuffie alle orecchie. La cassetta era già pronta sull’ultima canzone del lato 2. Premetti ‘play’. La canzone Purple Rain di Prince mi riportò più vivo che mai il ricordo di quel viso che fissavo come fosse la cosa più bella al mondo e di quell’ultimo bacio sotto la pioggia.