Dire o non dire:- dipende però, anche dall’accoglienza che la parola incontra…
Eravamo sotto l’occupazione tedesca.
Ero una maestra e scrittrice ebrea, insegnavo in una scuola del confine Francese.
In quel periodo di grande persecuzione, gli ebrei erano prima costretti a portare la stella gialla, poi erano allontanati da ogni luogo pubblico, dal loro impiego, dalle scuole.
Anni oscuri e dolorosi mi avevano tanto segnato quanto quei vagoni riempiti di bambini ebrei alla stazione.
Ignoravo tutto allora dei metodi di sterminio nazisti. E chi avrebbe potuto immaginarli!
Ma quegli agnellini strappati alle loro madri superavano già quello che avrei creduto possibile.
Un sogno che ha finito di dissiparsi per me davanti a quei vagoni carichi di bambini. Amavo tanto i bambini… ero sempre a contatto con quelle “piccole grandi” creature che illuminavano il mondo.
Tuttavia, ero lontana mille miglia dal pensare che andassero a rifornire le camere a gas e i forni crematori. invece, mio Dio, era tutto vero, era tremendamente vero!
Nel Lager ho sentito con molta forza il pudore violato, il disprezzo dei nazisti verso uomini, donne e bambini: tutte vittime umiliate. Ed io purtroppo, allora, non ero consapevole.
Solo, quando anch’io fui prigioniera, incominciai a capire perchè quando fui dietro a quelle sbarre maledette, tutto mi apparve dannatamente vero.
Da quel luogo non vedevo più il mare, non vedevo la mia famiglia, non vedevo i miei amici, non riuscivo a vedere più i miei alunni né a pensare che fossero maltrattati dai quei mostri disumani.
Poveri angeli indifesi, poveri piccoli cristi!
Nell’attesa angosciante, pensavo che una volta arrestata, tempo una settimana sarei morta e tutta la mia vita con l’infinito che io sentivo dentro di me, sarebbe spazzato fuori.
Non potevo scrivere potevo solamente sognare quanto sarebbe stato bello se solo fossi potuta uscire da quelle sbarre.
Come un cavallo pazzo, la mia fantasia volava, attraversava muri sporchi e sbarre d’acciaio.
Il mio pensiero inquieto volava libero in un cielo nero senza luce e senza speranza.
Mi arrampicavo sulle sbarre con le mani, fino a farle sanguinare oltre l’umano, oltre il limite, oltre la vita dove il silenzio faceva spazio alla morte.
Avrei voluto essere una farfalla e volare via, uscire e attraversare quelle sbarre, fuggire da quella maledetta prigione. Da tempo conoscevo ormai la sopraffazione, la vergogna, la brutale umiliazione che ci spogliava della nostra umanità, e con essa anche della nostra femminilità.
Ero ancora viva ma mi sentivo già morta, sentivo che il tempo si era fermato per me; era il tempo dell’odio, dell’ingiustizia, ma era anche il tempo di Dio.
In quel tempo noi tutti, compresa me, dovevamo concentrarci nel perdono, nel perdonare chi ci aveva rinchiuso, chi ci aveva torturato, chi ci aveva annientato.
Quando uscirò da questa prigione, -mi dicevo- il mio unico debito verso Dio sarà solo quello di perdonare il mio fratello, il mio prossimo e farò come vuole il mio Dio, farò come vuole il mio Gesù’ con la purezza dell’infanzia e la poesia del cuore.
Non so se sono uscita dalla prigione. So solo che sono morta e rinata; nascere per caso, nascere donna, nascere povera, nascere ebrea è troppo in una sola vita!
Oggi, sono solo una povera e piccola scrittrice che ha provato a immedesimarsi in una “grande donna” che ha donato la sua vita per l’umanità.
Oggi non mi fa più paura il silenzio dei morti perché la Memoria dei giusti ne parla. Mi fa paura invece il silenzio dei vivi, di quelli che purtroppo hanno già dimenticato.