Il pancione mi faceva sentire goffa e mi impediva ormai ogni movimento, anche se ti avevo cercata tanto, non potevo godermi la gioia del tuo arrivo perché la paura era più grande. Pochi mesi dopo il tuo concepimento tuo padre ha perso il lavoro. Era giorno di mercato qui a Napoli e Gennaro era sceso presto, come ogni mattina, per andare a caricare la frutta e verdura.
Il negozio si trovava in fondo alla strada, molto vicino a casa nostra. Era un piccolo locale ma per me era un posto speciale, Gennaro lo aveva ereditato da suo padre e io lo avevo aiutato a farne un’attività che ci permetteva di vivere dignitosamente. Ero brava ad organizzare gli spazi ed ero anche un’abile venditrice. Ogni mattina sistemavo la frutta e la verdura come se dovessi realizzare un quadro. Mi alzavo prestissimo, anche prima di Gennaro a volte, perché volevo che fosse tutto in ordine quando arrivavano i clienti.
La prima era sempre Lina, che mi salutava allegramente, poi arrivavano le altre signore. Di ognuno dei miei avventori conoscevo ogni dettaglio perché mi piaceva ascoltare i loro problemi e le loro gioie e spesso si fermavano a chiacchierare come se quello non fosse un negozio di frutta e verdura ma una bella caffetteria.
Quando arrivava Gennaro, però, il registro doveva cambiare perché lui non sopportava le chiacchere, non gli piaceva che entrassi in confidenza con i clienti. Era sempre rigido e imbronciato quando eravamo in negozio, solo io, ogni tanto, riuscivo ad ammorbidirlo. Non era cattivo, ma era molto geloso e se qualcuno lo irritava o gli faceva una domanda di troppo finiva che lo cacciava via.
Io cercavo di mediare e ci riuscivo molto bene, ma da quando ero incinta non potevo più andare a lavorare come prima, e questo stava diventando un problema.
Mi ricordo ancora bene quando l’ho sentito rientrare, era presto per il pranzo e l’ho chiamato, ma non rispondeva. Mi sono asciugata le mani e sono andata verso la porta d’ingresso, era lì, seduto per terra, con le mani tra i capelli.
L’ho scosso, gli ho preso le mani, gli ho chiesto di non spaventarmi, ma lui era immobile con lo sguardo perso nel vuoto. Non sapevo cosa fare. Poi d’un tratto mi ha guardato e mi ha detto:
“Rosa, siamo rovinati!”.
“Perché Gennaro, cosa è successo?”,
“Il negozio, Rosa, il negozio è bruciato!”.
Non potevo crederci, il negozio che insieme avevamo tirato su come fosse un “bambino”, non c’era più. Mi chiedevo come avremmo fatto.
La casa era in affitto, io aspettavo te. Ma non potevo buttarmi giù anch’io e provai a rincuorare tuo padre.
Rimase lì seduto per terra per ore, poi riuscii a farlo alzare e si coricò. Da quel giorno, però, tutto è cambiato.
Non c’è stato nemmeno quando sei nata. Era lunedì, avevo iniziato a cucire per guadagnare qualcosa almeno per mangiare. Gennaro non si alzava più la mattina, rimaneva a letto per tutto il giorno e poi la sera usciva senza dire niente. Non sapevo dove andasse né cosa facesse, ma era impossibile parlargli, era diventato ormai solo un’ombra nella nostra vita.
Mi picchiava ed io pregavo che una di quelle sere non tornasse più.
Dicevo, era lunedì, le settimane sarebbero scadute a breve ma la salute non mi era mai mancata durante la gravidanza. E così anche quel giorno stavo lavorando, cucivo un vestito da sposa, e stavo per attaccare l’ultima perlina, quando una fitta fortissima mi ha trafitto il ventre.
Ho sentito un liquido caldo scivolarmi tra le gambe. Non ho avuto paura, ho lasciato il vestito e mi sono avvicinata con fatica alla porta d’ingresso, tenendomi il grembo forte con le mani. Ho chiamato Tina, la nostra vicina di casa, ed è arrivata con tutto l’occorrente per affrontare il parto in casa.
Non ci hai messo molto tempo, poche spinte e ho sentito i tuoi vagiti, per me era una musica melodiosa e non ricordo nient’altro di quel momento se non il tuo visino e i tuoi occhi grandi che mi hanno fissato fin dal primo istante.
Quando ti ho avuto fra le braccia ti ho promesso che ti avrei protetta da tutto e da tutti. Da quel giorno sono passati sette anni, e tu Anna sei cresciuta sana e forte. Sei identica a tuo padre, hai i suoi stessi lineamenti, la pelle scura, i capelli corvini e gli occhi color cervone, grandi e intensi.
Parli poco, ma a me basta guardarti per capire quali emozioni ti sconvolgono. Fin da piccolina hai mostrato un’intelligenza fuori dal comune, hai pianto pochissime volte, come se già sapessi di non poterlo fare.
Quando sei cresciuta mi aiutavi con il lavoro, mi tenevi i vestiti che cucivo o rimanevi lì a guardarmi per ore. La sera ci addormentavamo abbracciate e non ci siamo mai separate fino al tuo primo giorno di scuola. Quando sei entrata in classe, piccolina e scura com’eri mi si è svuotato il cuore. Ero felice che stessi crescendo ma avevo paura per il tuo futuro. Ma tu mi hai guardato e mi hai sorriso, eri felice ed io volevo che continuassi ad esserlo, avrei fatto di tutto per te.
Nonostante il dolore per ciò che era successo alla nostra famiglia sapevo che insieme potevamo farcela. Tu mi davi la forza per andare avanti.
Quando tornavi da scuola, spesso capitava che tuo padre stava dormendo, poi quando verso sera sapevi che stava per uscire ti chiudevi nella tua stanza, avevi paura, a volte tornava a casa ubriaco, ed io ti nascondevo. Non si era forse nemmeno accorto che eri nata, né se ne preoccupava. Almeno così credevo.
Per anni ti ha ignorato e io spesso ti mandavo a casa di Tina per evitare che lo incontrassi. Non ne parlavamo mai, né tu mi hai mai chiesto nulla, anche perché ogni volta che mi domandavi qualcosa mi vedevi piangere. E poi hai smesso di chiedere.
Una sera di febbraio, io e te eravamo in cucina, vicino alla finestra. Fuori pioveva e sferzava il vento, dai vetri filtrava un’inquietante luce blu. Tuo padre, come al solito, stava per uscire da casa, ti ho chiesto di nasconderti in bagno e tu eri lì dietro la porta mentre lui per la prima volta dopo tanto tempo mi parlò.
Quello che mi disse fu come una coltellata in pieno volto:
“Tua figlia è stata la nostra rovina, è colpa sua se ci hanno bruciato il negozio. La porterò via da qui”.
Questo è l’ultimo ricordo che ho.
Urlai per ore e quando mi svegliai mi trovavo in un ospedale. Ma non era un ospedale normale. Ero legata al letto e qualcuno, quando per pochi attimi mi svegliavo, veniva a pungermi il braccio. Non so per quanto tempo sono rimasta là dentro, ma so che non ti ho più rivista. Neanche quando sono tornata a casa. Gennaro non dormiva più tutto il giorno, sembrava si fosse ripreso. Gli chiedevo di te, ma lui diceva che stavi bene e che non avevi più bisogno di una madre come me, che ti aveva data a gente “buona”.
Io rimanevo a letto incapace di alzarmi, lui era sempre ben vestito, a casa portava fiori freschi ogni giorno, mi diceva “Rosa presto riavremo il nostro negozio”.
Non mi picchiava più. Ma io ero ormai morta dentro senza di te e non avevo neanche la forza di rispondergli. Quando non era dolce e premuroso, mi minacciava. La mia vita era un inferno e il solo pensiero che mi teneva in vita era la speranza di ritrovarti.
Ogni notte pensavo a come poter scappare da quella casa che era diventata la mia prigione. Quando Gennaro usciva chiudeva la porta a chiave, ormai tutti in quartiere pensavano che fossi diventata pazza dopo la tua scomparsa, ma forse nessuno sapeva che era stato proprio tuo padre a portarti via.
Nessuno mi credeva, anche Tina, che ti aveva vista crescere non mi cercava più, ma io l’avevo capito che aveva paura e l’avevo perdonata.
Poi, proprio quando avevo abbandonato ogni speranza e stavo scivolando in quello stordimento che forse mi avrebbe portata alla morte, qualcuno aprì la porta di casa.
Avevo paura, Gennaro non tornava da qualche giorno ed io non sapevo cosa pensare, mi nascosi in un angolino dietro l’armadio, da lì potevo vedere l’ingresso di casa, ma non era Gennaro.
Sentii una voce di donna e la riconobbi subito, era Tina, corsi verso di lei, la abbracciai e lei mi chiese scusa mille volte, ma io le presi il volto tra le mani e le chiesi:
“Anna?”.
“L’hanno trovata Rosa, Anna sta bene”.
“E Gennaro?”
“Lui è in carcere, ho testimoniato, sapevo che ti aveva rinchiusa qui dentro”.
D’improvviso mi risvegliai da quel torpore che mi aveva sopraffatta in tutto quel tempo che ci aveva separate e i miei occhi si illuminarono vedendoti entrare dalla porta, bella e luminosa come una giornata di sole che si affacciava finalmente dopo un lungo buio.