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clichè

La solita, decadente, umanità, pensò, e prese posto nell’ultima fila in fondo alla sala d’attesa del dottore. Gli uscieri alle porte scorrevoli, la segretaria con le unghie laccate di smalto, l’infermiera con i capelli ossigenati, la luce pallida del neon, il bianco smorzato delle pareti, le sedie di plastica rossa, la finestra con le tapparelle abbassate, la distributrice automatica… tutto, tutto la disgustava. Si sistemò sulla sedia e prese un libro dalla borsa di tela nera. Davanti ai suoi occhi comparve l’immagine di un sasso.

Come ogni volta aspettava il proprio turno seduta dietro a tutti e con le spalle alla finestra, le gambe accavallate e un sorriso insuperbito sulle labbra, e in quei minuti di attesa trovava sempre modo di compiacersi tenendo il libro sollevato a mezz’aria, sacerdotessa che ostenta l’oscurità di un volto non toccato dal bagliore dei display telefonici. L’infermiera pronunciò un numero e un uomo dal volto rubizzo uscì dalla stanza; una coppia anziana si sedette davanti a lei; una ragazzina riccia ne occupò la sedia accanto. Uno sguardo veloce e tutto divenne dettaglio- il chiodo di pelle rosso, i jeans strappati sulle ginocchia, le scarpe da ginnastica con la zeppa, il volto nascosto dietro gli occhiali rotondi- lei da giovane- e all’improvviso provò nostalgia per i disegni che faceva da bambina, quando tutto poteva ancora avere una trama e uno sviluppo, per quelle principesse allegre che occupavano il centro vuoto della pagina con le loro linee raffinate, per quel pezzo di sole che sbucava sempre in qualche angolo, gli alberi con i fusti marrone e le chiome verdi, le case con il comignolo fumante…. interi paesaggi archeologici si sollevarono in lei, campi di grano dopo la mietitura e fiorellini viola sul verde smeraldo di piante di tabacco, rimbaud e il camino acceso nella cucina della casa in cui era nata; un’ombra sola venne a turbarla, l’impressione che a quelle principesse mancassero gli occhi, ma con un battito veloce delle palpebre cacciò via quell’immagine. 

E mai si chiese se quelle principesse avessero gli occhi precipitati indietro e all’interno, e non provò mai lo stupore di riconoscersi in quell’immagine paralizzata dall’angoscia.

Controllò l’ora sul telefono, l’attesa è l’agonia degli insicuri patologici, pensò, la perdita che occhieggia da troppo vicino; il ritardo, che è l’attesa umiliata, è pura cattiveria, ed ebbe paura che una palpitazione uscita dalla profondità del silenzio potesse divenire pianto. Uno scarafaggio può fingersi morto per 23 minuti, una libellula può simulare la caduta fatale e restare immobile a terra finché non si sente di nuovo sicura, pensieri confusi le vorticavano in testa, non stava bene, dubitava di esistere, no, non sto bene. Un aereo ronzò minaccioso nel calore del cielo primaverile, un uccello lì fuori volò via dal ramo di un albero; ripose il libro e ne prese un altro, distrattamente lesse l’indice e la quarta di copertina e poi lo rimise in borsa.

Quel senso di frenetica inutilità che la avvolgeva come fosse una pelle, la sensazione costante di essere la copia di un originale assente.

Ciò che ricorda è ciò di cui non può fidarsi, ciò che le appare è ciò di cui si fida.

Aveva letto tanti libri, si cercava tra le righe e nei dettagli dei personaggi, nel tono dei filosofi e negli aforismi dei poeti, cresciuta ibrida tra realtà e finzione con il tempo aveva sviluppato la convinzione che esiste solo ciò che la parola può esprimere, solo ciò che ha forma. Era costantemente occupata a volere o non volere essere quella che era e perciò concedeva poca attenzione alle cose, nulla sembrava in grado di mettere radici in quel terreno limaccioso e oscuro che giaceva in fondo alla sua intimità, non sapeva e non provava nulla. 

Sono sempre stata io, chi sono stata e chi avrei potuto essere? è mai possibile un istante di identità senza psyche, non c’è mai la possibilità che tra ciò che si è e ciò che si è già stati la coscienza si smarrisca- e vi si infili magari la coscienza di uno scarafaggio? 

Perdo di continuo il filo della narrazione.

Si era sempre sentita diversa dagli altri esseri umani, come se una specie di dissonanza tra lei e l’armonia del mondo fosse la sua vera essenza, e fu per questo che all’università decise di studiare archeologia e di specializzarsi sui culti funebri. Forse nel mondo dell’incorporeo cercava la compiutezza che il suo corpo le negava;  forse nella fissità della morte cercava un conforto alla mutevolezza della vita. Forse avrebbe solo dovuto vivere. 

Pesco un suo ricordo e pensavo venisse dopo invece eccolo qua, sua madre che le porge una lettera, le sue mani tremanti che la aprono: la partenza, iconografia di un tempo che non passa e diviene lutto. E poi lei che piange in una città sconosciuta con la schiena appoggiata ad una parete gialla nell’oscurità di una notte d’estate, il cielo senza stelle e le voci dal terrazzo di fronte. E nella tasca di un cappotto chiuso nell’armadio un mucchietto di bustine di plastica rettangolari, sottili e sigillate: piccoli bisturi con lame acuminate, come quelle che vorrei affondare sulla pelle ogni volta che un grido mi si spegne nella gola asciutta.

E poi la mattina quel messaggio- Ciao come stai?- Semplice e informale, non troppo distaccato però, sindrome dell’abbandono colpita e affondata. -Male-  sensazione di sentirsi a casa solo nella forma definita e circoscritta della parola, nella fissità sempre mortuaria dell’immagine, nella lotta continua tra ciò che la parola nomina e ciò che i suoi occhi vedono. Si, era di nuovo naufragata in se stessa, di nuovo cercava le forze per raggiungere la zattera della medusa

– posso tornare?-

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