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Camera anecoica. 2.

il mio antenato, quello divorato intendo, viveva seguendo altri ritmi e non certo le scadenze e le bollette e le menate dei ritardi e degli anticipi: il sole sorge, mi alzo; il sole cala, accendo il fuoco, costruisco un riparo; si mostra la volta stellata, dormo.  all’alba, cammino e inseguo la mia preda, stando attento a non divenire io la preda. non come noi, nevrotici, in fila al supermercato: la preda inscatolata, imbustata e pesata.  il prezzo della sua conquista lo scontrino e il denaro da sborsare. la fila si allunga e la nostra pare ferma. proviamo quel perenne senso di frustrazione da cassa del supermercato, mi dico io, dato dalla memoria atavica tradita di esserci ancora una volta dimostrati incapaci di procurarci del cibo, alla pari, lottando contro le belve? il mediocre nostro sopravvivere, ricordatoci, a scorno, dalle buste della spesa? se non il saldo più conveniente, nessun trofeo resta del mio antenato che scuoterebbe la testa in segno di disapprovazione, magari frastornato dai colori delle confezioni e dagli odori artificiali dei cibi. la tigre però non mi pare una alternativa poi così allettante, mio caro antenato! guarda che fine hai fatto! privi del super udito per la tua distrazione! e che ne sarà stato della linea genetica di coloro i quali si immolarono, ingenui o temerari, per assaggiare piante, animali e qualsiasi cosa avesse parvenza di nutrimento? i sommelier e i gourmet sono forse gli eredi di coloro i quali sopravvissero? ne rimane traccia nel loro DNA? dovremmo ben pensare a una sorta di riconoscimento, magari una bella statua: AL SACRIFICIO PER LA COMMESTIBILITA’. non ci pensa mai nessuno? ma quanti rami anche qui potati per garantire un futuro alle future generazioni? e senza pensare ad altro che al proprio (preistorico) stomaco vuoto! il massimo egoismo vantaggioso per i discendenti. non è forse così che è proceduto il mondo? l’ottimizzazione del proprio bisogno che, a cascata, porta vantaggio a chi verrà? e così appare come se vi fosse una richiesta dalla vita: che si proceda. che si continui. inesorabilmente. come è crudelmente ovvio, davanti alla scomparsa di qualcuno di caro, rendersi conto che per il resto del mondo, quello che ci pareva essere un prezioso dono, ora a noi sottratto, insostituibile, nella sua assenza, non scalfisca nulla. guardavo spesso le foto, i filmati, i quadri delle generazioni passate e non potevo non osservare quanta vita vi fosse in quegli occhi, ora svaniti. ma la traccia del loro passaggio restava e ancor più me li rendeva cari, vicini a me. quello sguardo avrebbe potuto essere il mio e quel sorriso, quella posa: non forse erano i miei? sarebbe accaduto anche a me: svanire, divorato nel gorgo del tempo. ma rimettendomi a questa sensazione che la vita vuole solo la vita, che procederà perché in se stessa trova la sua giustificazione e la sua ragion d’essere, al di là dell’individuo. pensai che, un giorno, il più lontano possibile, ovviamente, pur avendo concluso il mio ciclo vitale, capendone meno di quanto avrei voluto, qualcosa permarrà. intrecciata la serie di cause e conseguenze quale sono io, avrò portato avanti un frammento  di questa necessità. idea o concetto non del tutto consolante o risolutivo , ma si sa che la paura dell’oblio compete soltanto all’ego. e di ego ne possediamo a sufficienza per riempirci le ampolle sulla Luna di ariostesca memoria. per garantirci una parvenza di identità, di nucleo fondante e, invece, è un nonnulla: un grumo di passioni e di ricordi, per lo più travisati dalla memoria, così fallace, così ricostruttiva di senso a posteriori da diffidarne! ma a noi piace raccontarci per quel che fummo e che vorremmo essere, in nome di chissà quale insieme di idee che ci siamo fatti per vivere e per sopravvivere davanti al mondo. bisogna essere delicati davanti ai racconti di vita altrui: ricostruiscono non chi, ma come avrebbe voluto essere quell’io narrante. ed è lì che ogni parola e ogni immagine acquisiscono un valore per quel che rivelano nella loro scelta. siamo lo storytelling delle nostre vite. e quante ne ho raccontate io e quanti ricordi mi sono inventato, senza saperlo, senza volere: è così disarmante dire di sé. per quanto sia, inconsciamente, sfalsato dal reale! immagini e percezioni e poi una sorta di filo conduttore esistenziale: chi ha scritto la mia sceneggiatura? chi ha scelto che io dovessi preferire i lamponi alle more? e chi ha piantato in me il seme del dubbio e dell’entusiasmo? perché odio il western e mi appassiona la fantascienza? risposte nulle. se non un finto ritrovare ricordi a loro conferma: camaleonti del reale immaginato, questo sono gli esseri umani!  intanto batteva il cuore: l’istinto di preservazione è parte essenziale della vita e il mio stomaco gorgogliava, quale quello del mi antenato. allora, mi riavvicinavo alla porta, scrutando in cerca di un altro essere umano che venisse a salvarmi. e dopo tutte quelle riflessioni, mi domandai se non mancasse qualcosa al mio pensare. un concetto più ampio.  la domanda. anzi il domandone. Ma non era ancora il momento. La porta andava aprendosi ai suoni del mondo. 

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Camera anecoica. 1.

Il paesaggio del cuore