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“La letteratura non salva, mai. Tantomeno l’innocente. L’unica cosa che salva è l’AMORE, fede e ricaduta (che è come il temporale) della Grazia” (le ultime parole scritte da Tondelli di notte in ospedale…) Scrivendo queste righe dico subito che intendo narrare e non descrivere (scusa non richiesta accusa manifesta). Però non voglio imbastire tutto con due epifanie, qualche fras... Altro...“La letteratura non salva, mai. Tantomeno l’innocente. L’unica cosa che salva è l’AMORE, fede e ricaduta (che è come il temporale) della Grazia” (le ultime parole scritte da Tondelli di notte in ospedale…) Scrivendo queste righe dico subito che intendo narrare e non descrivere (scusa non richiesta accusa manifesta). Però non voglio imbastire tutto con due epifanie, qualche frase a effetto, la totale assenza di descrizioni, la frammentarietà di tutto il racconto. Certo è difficile trovare un equilibrio tra la sciatteria e la puntigliosità farraginosa. Quando si narra come ora io di nulla c’è il rischio di perdersi in mille variazioni inconcludenti sul tema, ovvero sul nulla. Mi stavo accorgendo che a più riprese ero ritornato sulla questione per me cara e scottante della disoccupazione. Prima che qualcuno mi dica di trasferirmi vi dico che non posso. Mia sorella single e disoccupata non vuole. Devo pensare anche a lei in futuro. Poi probabilmente ho perso il mio treno quando mi avevano offerto più volte lavoro nel Nord e io avevo preferito starmene con la famiglia, anche perché quando morì mio nonno ero a Padova: vorrei essere presente, se le cose andranno secondo natura, quando moriranno i miei genitori. Per ora sono fortunato perché i miei genitori mi campano e mi lasceranno qualcosa o almeno si spera. Però ho fatto anche piccole rinunce e sacrifici per farli contenti. Non posso ubriacarmi, drogarmi, fare baldoria, ospitare donne, viaggiare, fare le ore piccole, assentarmi per molte ore, essere di mani bucate, devo frequentare solo persone che vanno bene anche loro, non devo mettermi insieme purtroppo con una pornostar. La mia è la classica buona famiglia, fatta di lavoratori onesti, senza essere perbenista ma sotto certi punti di vista all’antica. Io sono più moderno. Ho un’altra mentalità ma mi adeguo per il bene di tutti. Ognuno nella sua vita ha le sue restrizioni. Nessuno è totalmente libero. Chi è libero nelle azioni spesso non è libero di testa, facendosi attanagliare dai sensi di colpa. Ma non cerco comprensione al mio disagio né tanto meno pietà: ho di che vivere per ora, anche se tutto è provvisorio e non ci sono certezze. Premetto per chi vuole leggere queste righe che qui sono espresse idee qualsiasi, comuni (non faccio mica parte dell’intellighenzia e non sono un prestidigitatore di parole), espresse anche per passare il tempo e distrarsi un poco dal pensiero del pericolo imminente di una guerra nucleare. È un modo come un altro per raccontare la mia storia. Avevo anche scritto una raccolta a metà strada tra poesia e prosa, intitolata “Cuore improduttivo”, ma avevo avuto solo qualche consenso. Non avevo avuto intenzione di pubblicarla a pagamento. Non l’avevo pubblicata a livello cartaceo, ma il mio era solo un pdf. Quindi era passata sotto silenzio. Non che fosse un capolavoro a livello stilistico, ma almeno non era pretenziosa, almeno non pretendeva d’esserlo. Insomma quella raccolta si trovava in un angolo remoto, sperduto del web in un blog letterario ormai in disuso, non più aggiornato. La ragazza che lo gestiva non sapevo neanche più cosa facesse. Non avevo più sue notizie. Lei non mi aveva più cercato e io non volevo essere invadente. Le avevo scritto una mail ma non mi aveva risposto. Mi dispiaceva tutto questo, però non potevo farci niente. Non sempre decidiamo noi. Dovevo anche rimettermi alla volontà altrui. Insomma le mie parole sembravano essere cadute nel vuoto. Più andavo avanti però e più pensavo che la disoccupazione era un argomento che si poteva coniugare in molti modi. Facevo un poco come certi afffabulatori che di fronte agli amici raccontano sempre le stesse storie, cambiando qualcosa ogni volta. In fondo l’importante è rispettare un canovaccio. Ma torniamo al punto della scrittura. D’altronde che ci volete fare? Qualcuno ha scritto che chi scrive deve sapere usare l’intelligenza degli amici. Personalmente ritengo che sia più onesto usare i propri momenti di stupidità o di scarsa lucidità, come scrisse tempo fa Aldo Busi. Io comunque non voglio essere troppo accurato perché difetterebbe la scorrevolezza. Talvolta quando si parla di scrivere di sé è come andare dal terapeuta e quasi mai vengono le parole giuste, appropriate. Quasi mai con un terapeuta, quando si parla dei propri problemi, i nostri discorsi sono fluenti, se si è veramente coinvolti e se siamo veramente interessati a risolvere i problemi. Così è anche per me quando tratto della mia vita e intendiamoci subito: non ho voglia di creare vite immaginarie per poi parlare in terza persona di me (come Flaubert). A volte mi chiedo a chi giova tutto questo? Forse a nessuno alla fine. Forse rischio di tediare qualsiasi lettore. Forse è meglio raccontare barzellette. Ma ora è giunto il momento di andare alla sostanza. La mattina io e mio padre avevamo fatto un giro presso Pisa con la macchina. Mi ero messo le solite scarpe marroni, quelle con un bel tacco. Non sapevo perché ma si slacciavano sempre. L’alternativa era mettermi un altro paio di scarpe che mi spaccavano i calcagni, me li facevano sanguinare. Mi ero fermato a guardare per un attimo quel piccolo giardino con tre peri, un arancio amaro, tre meli, una fotinia. Io non ero un grande osservatore ma mi avevano fatto notare che la fotinia, nonostante il nome strano, era una pianta comune e la si poteva trovare nei vasi del Piazzone e come siepe in una villetta accanto alla mutua. Mi ero messo la cintura. Mi ero adagiato sullo schienale della poltroncina. Pensavo di nuovo alla disoccupazione. Non avevo scadenze, impegni improrogabili, calendari. Talvolta non dormivo e ero assonnato. Anche se non lavoravo ero affamato. Anche se non ero produttivo esistevo anche io e volevo continuare a vivere. Anche io, nonostante la mia inutilità, avevo le mie esigenze. Un tempo somatizzavo di più. Soffrivo di una dermatite. Soffrivo di ansia, depressione. Avevo una sensazione imminente di morte talvolta. Poi andavo a farmi l’elettrocardiogramma e non risultava nulla di grave. Ma alla radio passavano la stupida canzone crumira “Chi non lavora non fa l’amore”. Cosa ci volevi sperare? Uno degli effetti collaterali della mia condizione è che quando ero nel chiuso della mia stanza a riflettere volevo andare fuori e viceversa. Ogni tanto quando ero fuori alzavo gli occhi al cielo e fissavo un punto indefinito, ma non trovavo mai alcuna risposta: era assolutamente inutile, anche se era un riflesso incondizionato. Ci eravamo fermati a prendere un cappuccino in un bar di un ultras del Pisa. Me ne ero accorto dallo stemma impresso con uno spray su un vaso fuori dal locale. Il bar era bello. C’era anche una sala spaziosa per pranzi e cene. Un tempo frequentavo una comitiva di ultras del Pisa. Non sono mai andato a una partita. Non mi interessava, per quanto fosse una passione rispettabile. Poi li ho persi di vista. Parlo di molti anni fa. Al bar c’era gente. Con il fatto che era festa molti bar erano chiusi. Era stata un’impresa trovarne uno aperto. In macchina avevamo ascoltato un poco di radio Vintage e poi avevo inserito il CD di Guccini. Avevamo fatto rifornimento di Gpl due giorni prima. C’erano ancora due spie verdi. Non saremmo rimasti a piedi. Mio padre mi diceva che ogni volta che camminava nei pressi del supermercato dei germani gli svolazzavano vicino e poi si riposavano nel fosso, sempre curato. Mio padre voleva a tutti i costi andare a comprare una colomba. La pasticceria era chiusa. Allora ha aperto il finestrino e si è messo a chiedere informazioni. È in quel preciso momento che ho visto un mio ex amico che un tempo piaceva molto alle donne per la sua bellezza. Ho visto come era invecchiato precocemente o forse era solo molto trasandato. Allora non ero solo io. Voi non lo sapete ma mia madre non faceva che dirmi che la mia camera era in disordine per via dei libri e che non avevo cura della mia persona. In fondo io mi paragonavo spesso coi più giovani che vedevo a giro, ma il termine di paragone più appropriato, il confronto più onesto sarebbe stato con quelli della mia età. A un certo punto stava per succedere un incidente. Una macchina aveva fatto retromarcia e per poco non aveva colpito un ragazzo, che sfrecciava col monopattino. Mi ero messo a ricordare la ragazza cinese del bar della stazione in cui andavo a prendere il caffè. Ci scambiavano solo il buongiorno. Ma forse eravamo in contatto telepatico senza neanche saperlo. Una volta arrivati a casa, mi ero riposato un’ora. Ero sempre perso dai soliti pensieri. Niente di nuovo. Nessuna novità. Niente di originale. Pensavo che avrei voluto andare a Lucca in un nightclub ad assistere a uno spettacolo di Valentina Nappi, ma non c’era nessuno che mi portava. Non avevo nessuno con cui andare e non potevo a quell’ora andare con il treno o con l’autobus. Quindi niente da fare. Mi toccava rimandare. Avrei visto in un’altra occasione Valentina Nappi. Avevo pranzato con carne e patate fritte. Sul finire una fetta di schiacciata di Pasqua. Ero subito corso in bagno per un bisogno impellente. Mi ero lavato i denti. Avevo passato il filo interdentale. Avevo fatto gli sciacqui col colluttorio. Avevo riposato per due ore. Mi ero anche connesso a Internet. Avevo letto un articolo sulla reincarnazione del dottor M.Newton, che ha lavorato per quarant’anni facendo ipnosi regressiva. Avevo riletto i passi sottolineati del “Libro tibetano dei morti”. Quindi mi ero messo a leggere due passi dell’Ecclesiaste. Ero andato su Facebook. Poi ero andato in cucina e avevo fatto cento volte avanti e indietro, mentre mia madre e mia sorella guardavano imperterrite la televisione. Ero uscito fuori per accarezzare il cane. Ero partito per il bar. Avevo preso mascherina, green pass, telefonino, spiccioli, portafoglio, chiavi. Ero ritornato dal bar accaldato. Era primavera. Non si sapeva come vestirsi. Mi ero messo addosso un giubbino, ma non avrei dovuto perché non era assolutamente freddo. Avevo appena fatto quattro chiacchiere con Giulia, la ragazza del bar dove andavo di solito. Quel bar distava circa un chilometro da casa e per arrivarci attraversavo tutto il quartiere della Sozzifanti, stando sempre con gli occhi bassi e sempre attento a non pestare escrementi di cane. Camminavo talvolta con le mani in tasca. Cercavo un poco di gente, ma odiavo il trambusto. Cercavo una donna, se possibile, ma non ero pronto per un legame affettivo stabile. Forse la cosa migliore sarebbe stata andare a passeggiare nel cimitero perché tanto prima o poi quella è l’ultima destinazione, il nostro soggiorno eterno. La Sozzifanti era sinonimo di serenità per me. Mi piaceva quell’insieme disomogeneo di abitazioni (palazzi, ville, villette, negozi). Era una zona concreta, pragmatica. Non conoscevo nessuno. Nessuno mi conosceva. Potevo camminare indisturbato da solo senza aspettare che qualcuno mi fermasse, senza l’obbligo di conversare o salutare nessuno. Mi ero trasferito quattro anni prima. Facevo sempre lo stesso tragitto ogni giorno. Facevo sempre lo stesso identico percorso. Evitavo accuratamente un bar sotto i loggiati, dove qualche volta c’era una mia vecchia conoscenza che non volevo vedere. Non che avessi niente contro quel bar o contro quel barista, ma ritenevo opportuno evitare. Perché cercare noie, problemi, guai? Scansavo i passanti. Mi distanziavo da loro. Talvolta mi spostavo sull’altro lato della strada. Avevo preso un caffè. Costava solo un euro. Il cappuccino costava un euro e venti. Una birra da 33 centilitri solo due euro. Una birra da 66 centilitri solo tre euro. Erano i prezzi più economici della zona e forse addirittura di Pontedera. Giulia sapeva mettere a suo agio i clienti. La sera dopocena quel locale era molto frequentato. Giovani di tutte le nazionalità andavano a farsi qualche birra. A ogni ora del giorno c’era anche un viavai per le slot machine. Comunque io spesso andavo a prendere un caffè verso le 3 o le 3 e mezzo. A quell’ora, un poco morta, c’erano poche persone. I più erano al lavoro. L’ambiente era tranquillo, informale, accogliente. Avevo affrettato il passo. Ero arrivato a casa. Mi ero messo in camiciola. Avevo posato le scarpe in garage. Mi ero messo le ciabatte. Indossavo i pantaloni del pigiama. Un poco sudavo ancora. Delle gocce imperlavano la mia fronte. Ero andato a sciacquarmi tutto al lavandino. Avevo fatto le solite abluzioni per non puzzare. Ma ancora non smettevo di sudare. Mi ero anche cambiato. La fronte era sempre madida. Poi avevo sceso le scale. Il corrimano era da aggiustare. Dovevo fare attenzione ed essere delicato nel reggermi; non potevo aggrapparmi con tutte le forze. Guardavo la finestra. Scrutavo gli alberelli di biancospino, che sembravano esili e invece resistevano a ogni intemperie, a ogni temporale, a ogni tempesta. Non esattamente come me. Mi ricordava una foto di mio nonno materno, nato nel 1896, che dietro una sua fotografia in cui era ritratto accanto a una quercia aveva scritto: “qui sembro resistente come una quercia, mentre in realtà…”. Tutto ciò era una banalità, ma la cosa più profonda, se ci pensate bene, erano proprio quei puntini di sospensione finali. C’erano solo due macchine parcheggiate in quello spiazzo e non sapevo di chi fossero. Guardavo l’edificio che stavano ristrutturando. C’erano alcuni operai coi caschi che lavoravano lì anche in quel giorno di festa. Vedevo che la gru si stava muovendo. Avevo sempre paura che qualcuno cascasse dalle impalcature. I lavori stavano procedendo bene. Il comune di Pontedera aveva fatto le cose, come si dovevano. Lì ci sarebbe stata una scuola media e sarebbe stata intitolata a Dino Carlesi, poeta e critico d’arte locale. Avevo letto diverse raccolte di sue poesie. Quella che mi era piaciuta di più era “In forma di quindici”, dove si trovavano tutti i suoi versi d’occasione agli amici per la fine dell’anno, un modo per fare il consuntivo di ogni anno. I suoi versi erano contrassegnati da una nominazione precisa e talvolta da un alone di indeterminatezza, segno inequivocabile di un giusto equilibrio tra conscio e inconscio. Ma non voglio scrivere alcuna nota critica su Carlesi. Era solo un input, meglio ancora una precisazione. Nel parcheggio una bella ragazza bionda, slanciata, magra, con tutte le curve giuste stava camminando e si stava fumando una sigaretta. Poi si era fermata a smanettare col cellulare. Ignorava che la stessi osservando. Ignorava perfino la mia esistenza. Aveva poco più di venti anni. Cercai di ricordarmi come ero grossomodo alla sua età e se avessi potuto avere le mie carte da giocare con una simile bellezza. Mi immaginai per un attimo che quella ragazza fosse una prostituta occasionale che stava adescando clienti. Ma non lo seppi mai. La cosa più probabile è che stesse aspettando il suo ragazzo o un’amica. Se fosse stata una prostituta va detto che anche per i più mondani e esperti è difficile, talvolta impossibile saper distinguere una ragazza seria da una prostituta e lo scrivo senza alcun moralismo. È solo che l’apparenza inganna e non perché pensavo che in ogni donna c’è una prostituta. Mi sarebbe piaciuto fare una pazzia: correre fuori mezzo svestito e cercare di approcciarla. Ma c’erano alcuni freni inibitori che mi facevano desistere da fare le prime cose che mi passavano per la mente. Per primo avevo 49 anni. Inoltre avevo dei vicini, che seppur squisiti, non potevo stupire negativamente. Poi avevo 24 denti in bocca, avevo la pancia, ero un poco incurvato, avevo una calvizie incipiente che cercavo di nascondere tenendo i capelli molto corti. Così non passai all’azione. La bella passante scomparve dal mio campo visivo in meno di un minuto. Poi non l’ho più vista. Forse non è mai esistita; è stata solo un parto della mia immaginazione, un’allucinazione pomeridiana. Forse il mio desiderio più grande era entrare nel corpo e nella mente di una donna. Avrei soddisfatto una donna? Le donne erano sempre più esigenti ma sapevano fingere molto bene. Molti uomini erano ingenui e credevano alle loro bugie. Un tempo mi chiedevo chi era più solo di un bambino che ascoltava nella stanza accanto i gemiti dei genitori. Poi mi ricordai che un mio amico ascoltava gli amplessi dei genitori nella stessa stanza perché dormiva con loro: dormiva in un letto a una piazza di fianco a quello matrimoniale dei genitori. Quindi, al di là di ogni scena madre, c’è sempre qualcuno più solo di noi. Alla solitudine non c’è mai fine. Guardai in basso. Guardai le piastrelle bianche che si sporcavano con poco. Bisognava pulirle quasi ogni giorno. Aprii il frigo per versarmi da bere un poco di acqua fresca. Pensai anche alla guerra, ai morti, all’orrore. Pensai che la sospensione di incredulità bisognava applicarla più a questo mondo che alla fantascienza. Mio padre era andato a passeggiare con una sua amica, che aveva problemi di deambulazione. Lui l’aiutava. Facevano quattro passi nella zona industriale, che aveva dei marciapiedi sfatti e a tratti ricoperti di erbacce. Ma non era colpa dell’incuria. Ogni zona industriale aveva le sue piccole pecche. D’altronde una bella donna non si giudica da un neo. Esistono inoltre anche i cosiddetti nei di bellezza. Avevo parlato con Giulia al bar. In fondo io andavo al bar anche per fare due chiacchiere, per un poco di convivialità. Altrimenti ne avrei fatto a meno! Altrimenti avrei potuto farmi il caffè a casa con la moka o con la macchinetta! Invece una volta al giorno mi recavo lì per fare un poco di conversazione oppure per ascoltare un frammento di conversazione tra la barista e qualche cliente. È vero: in casa spendevamo per i caffè al bar, ma era ormai l’unico modo per socializzare un poco. Dopo due anni di pandemia in cui avevamo fatto vita molto ritirata quella era l’unica socialità rimasta. Era l’ora di dare da mangiare al lagotto. Il primo pasto lo faceva appena mi alzavo. Gli davo dei croccantini. Poi faceva lo spuntino con due fette di pane quando pranzavamo. Quindi cenava alle 6 del pomeriggio sempre con i croccantini. Infine faceva l’ultimo spuntino quando cenavamo noi con delle bucce di mela e delle croste di formaggio. Insomma non gli mancava niente. Faceva la vita del beato porco, anzi del beato lagotto! Aveva 10 anni ormai. Li avrebbe compiuti a maggio. Lo avevamo preso da un allevamento vicino a San Miniato. Non lo portavamo mai a fare tartufi perché avevamo paura; nel bosco mettevano polpette avvelenate. Era la solita guerra tra tartufai, anzi bisogna dire tra trifolai. Il mio lagotto oltre a essere molto affettuoso era molto furbo. Era geloso del suo ciottolo. Per non farlo abbaiare, ogni volta per ritirare il ciottolo, dovevo dargli una menatina di croccantini. Oramai c’era così abituato che mi avrebbe morso se non avessi eseguito quel rituale. Arrivò mio padre. Aveva le chiavi. Aprì la porta e subito ci disse che la sua amica era cascata di nuovo, anche se non si era fatta niente. E dire che un tempo lei era titolare di una ditta, girava il mondo per lavoro, abitava in una villa e guidava belle macchine! Nessuno sa cosa gli riserva il futuro, tanto meno la vecchiaia! Mio padre aveva gli acciacchi dell’età ma era ancora in gamba. E io chi ero? Ero un disoccupato cronico con nessuna aspettativa per il futuro, con un passato da laureato in psicologia, da commerciante di mobili e abbigliamento per pochi anni. Non mi accadeva mai niente. La mia vita era fatta di noia. Ma in fondo andava bene così. Io sapevo benissimo che ogni novità sarebbe stata tragica o drammatica. Ci voleva mestiere anche a non fare niente. Ormai l’unico mestiere che sapevo fare era quello di non fare niente. Realisticamente parlando, chi mi avrebbe dato un’opportunità alla mia età? Avevo anche provato al bar solito che frequentavo. Cercavano un/a barista. Avevo chiesto se volessero una persona con esperienza. Mi avevano risposto che un minimo di esperienza era indispensabile. Il giorno dopo avevano aggiunto al foglio con l’annuncio, affisso sulla vetrata: “con un minimo di esperienza”. Non avevano trovato nessuno e allora la titolare aveva deciso di chiudere il martedì quando prima il bar era aperto tutti i giorni. Tempo fa avevo inviato il mio curriculum alla Piaggio e avevo scritto “disponibile a fare turni”. Non mi avevano mai chiamato. Non mi avevano mai voluto nemmeno come operaio. Insomma nessuno mi voleva. Inviavo curriculum ma nessuno mi chiamava. Tutto era vano ormai, tutto era inutile. Non avevo neanche una storia da raccontare. Con le donne il rapporto era inesistente. Non uscivo con una donna da più di dieci anni. Non sapevo neanche più come relazionarmi, come rapportarmi con una donna. Come presentarmi con una donna? Potevo presentarmi così: “piacere Davide Morelli, disoccupato”. Qualcuno mi aveva detto di interagire naturalmente, ma io non ero più abituato. Le relazioni sociali e anche quelle sentimentali non sono solo naturali. A ogni modo il problema non si poneva perché l’opportunità non si era presentata. L’essenza della mia solitudine era il nulla. L’essenza della mia vita era noia e alienazione, come la stessa essenza della civiltà occidentale, anche se la gente cercava di dimenticarsene bevendo drink, facendo party, scopando a più non posso. Finiva poi per eterogenesi dei fini che scopare diventava l’essenza stessa dell’Occidente, che in fondo era solo il modo più facile e sbrigativo di stimolare il nucleo accumbens. Io comunque avrei avuto bisogno di fare sesso con una donna. Era da tempo immemorabile che non lo facevo. Ma sarei stato in grado di soddisfarla? Forse era meglio rinunciare già in partenza. E cosa avrei potuto garantire? Assolutamente niente. Recentemente avevo avuto delle piccole infatuazioni virtuali con letterate, ma non mi avevano mai considerato. Purtroppo o per fortuna. D’altronde ero un essere umano anche io con i suoi limiti e le sue debolezze. Che ci dovevo fare se mi piacevano ancora le donne? In fondo mi attiravano. Ma la ricerca era infruttuosa, anche se a onor del vero non mi proponevo mai, non ci provavo più come un tempo. Insomma non succedeva mai nulla di interessante né di buono. A ogni modo non avevo niente da dire. E poi cosa rimaneva da dire? Tutto era stato detto. Restava solo da scrivere delle note a margine, delle postille. La storia della mia vita non era da trasfigurare né da romanzare. Non avrebbe interessato nessuno. Ero troppo vecchio per creare mondi fittizi o surreali. Il realismo magico esisteva già. L’esistenzialismo pure. Non avevo voglia di ripetere ciò che altri molto meglio di me avevano già detto. Eppure forse anche io potevo dare il mio infinitesimale contributo, il mio microscopico apporto lasciando la mia testimonianza. Ma anche questa a chi sarebbe interessata? Forse dovevo scrivere più per me che per il mondo, ma avevo questo impulso irrefrenabile di scrivere. Non potevo razionalizzare. Insomma non avevo niente da dire e da fare, ma dovevo dire al mondo che non avevo niente da dire e da fare. A me non interessava avere stile né saper scrivere secondo i canoni letterari. Chi scriveva più secondo i canoni letterari? Anche i critici letterari che li imponevano agli altri se ne discostavano se si mettevano a scrivere prosa. Comunque io volevo scrivere come pareva a me senza seguire mode o dettami. Costasse quel che costasse! Importante è che esprimesse me, la mia condizione, il mio essere nel mondo nel modo più onesto, genuino e autentico possibile. Vedevo troppa cura nei dettagli di molti autori, ma a volte pensavo che fosse una posa perché vivere nella migliore delle ipotesi è prendere il mondo come viene grossolanamente. Qualche intellettualoide diceva che ci voleva distacco, che ci voleva distanza, che non poteva essere uno sfogo. Poi gli stessi si facevano le pippe sui loro ricordi di boomer privilegiati, che picchiavano il prossimo in nome della rivoluzione e raccontavano ancora quegli eventi senza condannare mai quelle violenze, senza un minimo di autocritica o pentimento (perché per loro per cambiare l’ordine delle cose una certa violenza era necessaria, anzi fisiologica). Dirò di più: alcuni vecchi illusi cercavano di fare proseliti, però si accontentavano di qualcuno a cui raccontare le storie dei bei tempi andati. E poi nessuna opera trattava della disoccupazione. Nessun autore disoccupato trattava della sua disoccupazione, che avrebbe rappresentato migliaia di disoccupati. Sarebbe stato un io misero che avrebbe rappresentato un noi. Sarebbe stata una prima persona plurale. Ma forse nessuna casa editrice non a pagamento avrebbe pubblicato una cosa del genere perché non aveva mercato: le persone volevano divertirsi, non pensare e non leggere le solite lagne. Inoltre io non ero neanche disoccupato. Ero andato all’ufficio di collocamento e mi avevano detto che in quanto ex commerciante non potevo essere annoverato tra disoccupati, che non mi spettava nessun sussidio né nessun reddito di cittadinanza. Ma veniamo alla questione dell’io. Apro una piccola parentesi. L’intrapsichico nasce dall’interpsichico: è ovvio. Ma è incompleto perché l’interpsichico non sarebbe possibile senza ciò che è specie specifico. L’io non è possibile senza gli altri. Gli altri non sono possibili senza l’io. Che la critica letteraria affermi la rimozione dell’io lirico e stabilisca che l’io è solo introiezione degli altri quando gli altri possono essere proiezione dell’io ebbene a me tutto ciò pare assurdo, considerando il fatto che ogni opera è affermazione dell’io. L’io è il più lurido dei pronomi per Gadda. L’io è una convenzione grammaticale per Nietzsche, che anticipava Pirandello per cui siamo uno, nessuno e centomila. A me sembra che questa avversione della critica nei confronti dell’io sia forse dovuta a un’utopia collettivista. Oppure forse è un modo per riequilibrare le sorti, tutte a vantaggio dell’io, nella poesia. È vero c’è troppa ipertrofia dell’io in poesia, in narrativa. Ma almeno lo si dica a chiare lettere. Comunque non era questione di vita o morte la questione dell’io lirico. Non ne avrei nemmeno discusso nei circoli letterari. Non frequentavo circoli letterari. Come avrei potuto presentarmi? Forse come disoccupato? Quando mai? Non mi avrebbero minimamente considerato. Avevo ben altro a cui pensare. I miei scritti sarebbero stati il classico express your self, ma al mondo d’oggi tutti vogliono esprimersi e anche i più saggi non si discostano dall’express your self! In definitiva i geni esistono (e io non lo sono) ma non sanno più fare i geni. La realtà è troppo mutevole, troppo complessa. Il mondo è un enorme caleidoscopio. È per questa ragione che i geni in origine finiscono per fare i talenti, i talenti in origine finiscono per fare i mediocri e i mediocri in origine finiscono per non dire nulla. Si tratta di un immenso scadimento collettivo. I raggi di sole obliqui entravano nella cucina, ormai fievoli. Era quasi la fine del giorno. Così mi recai dietro in giardino, in quei quattro metri quadri di giardino che avevo, per assistere al tramonto. Fu così, come molte altre sere, che ascoltai il tramonto in religioso silenzio. Il cane mi siedeva accanto, di fianco, in silenzio; sapeva che non volevo essere disturbato. Al massimo poteva baciarmi la mano o saltarmi addosso, ma non doveva abbaiare a nessuno, neanche alle autoambulanze, ai vigili del fuoco, ai cani e ai loro padroni che passavano nella strada. Mi sedevo e me ne stavo in silenzio a guardare i colori lividi del tramonto che incendiavano l’orizzonte là nei pressi delle pale eoliche, dove la notte si ritrovavano le coppie scambiste per fare gli incontri. Non era poetico ma era così. Il mondo è prosa perlopiù. Vanno avanti i prosaici. Ai poetici restano gli avanzi, anzi le briciole. Ritornando agli scambisti, un mio amico si era iscritto, perché raccomandato, a un gruppo Telegram di scambisti della zona. Ma aveva fatto troppa ironia. Uno gli aveva chiesto se aveva una compagna disponibile e lui aveva risposto che sua moglie era contraria a fare quelle cose. Allora era stato subito espulso. Insomma la goliardia aveva avuto la meglio su quel poco di desiderio e sulla tanta curiosità che lo animava. Era finito un altro giorno, che non era stato affatto memorabile ma forse neanche da dimenticare. Comunque non era colpa mia se la memoria considerava la maggioranza dei giorni dei dettagli insignificanti e non li archiviava. Anche questo giorno era passato. Avevo dato da mangiare al cane. Avevo svuotato la lavastoviglie e apparecchiato la tavola. Avevo messo le medicine di tutti in tavola. Avevo già preso la statina per il colesterolo. Non c’era altro da fare. Salii le scale per ritirarmi nel mio sottotetto adibito a camerina. Mi sarei messo a letto in attesa di cenare, trangugiando due tramezzini al prosciutto del costo di 1 euro l’uno, comprati al supermercato. Erano un’eccezione quei tramezzini. Le altre sere invece mangiavo le friselle con pomodoro e condite con l’olio. Andai su. Un tempo mi sarei rigirato nel letto, rimuginando le mie fantasie erotiche, ma ormai non ero più giovane. Pensai ai miei pensieri. Pensai anche che a un certo punto bisogna lasciarsi trascinare dalla corrente come foglie e non mi importava se era una metafora abusata. Avrei voluto che diventasse una mia regola di vita. I miei desideri talvolta mi sembravano fili dell’alta tensione, ma non prendevo ancora il Viagra perché un tempo ero stato giovane e avevo a differenza di altri vissuto la giovinezza. Avrei fatto un torto prima di tutto a me stesso a considerarmi vecchio o totalmente fuori gioco. Forse avevo ancora da dire la mia. I miei pensieri ormai erano quasi gli unici effetti personali. Si faceva per dire ormai. Altri imperativi categorici: sopportare che ogni anno nella memoria era una rapida sequenza di immagini, mai snaturarsi, mai cercare di cogliere tutti i nessi, ritenere che nella vita il problema non era avere la vertigine ma scongiurare la voragine, considerare che nessuno aveva mai totalmente torto o ragione. Concludendo, la vita non andava nel verso giusto, ma non lo sapevo se era colpa unicamente della vita o anche di me, che non andavo nella giusta direzione. E poi esisteva davvero un verso giusto? Si poteva essere in infiniti modi e la vita stessa aveva infinite forme. Sarebbe arrivata la sera, poi la notte; la sera e la notte si sarebbero prese gioco di me come donne che non ci sono state, come parodie postmoderne e pluriorgasmiche di locandiere goldoniane. Quel giorno era finito. Condividi:
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Dialogo surreale, anzi fittizio (atto secondo)
"Il problema nella vita è saper distinguere il bene dal male, il sogno dalla realtà, la realtà dalla finzione, il piacere dal dolore, la vita stessa dalla morte.""Non è facile saper distinguere perché spesso tutto è mischiato assieme. L'esistenza, il mondo, noi stessi siamo un impasto di tutto ciò.""In che modo si deve distinguere tutto ciò? Come distinguere ad esempio ciò che passa e ci... Altro..."Il problema nella vita è saper distinguere il bene dal male, il sogno dalla realtà, la realtà dalla finzione, il piacere dal dolore, la vita stessa dalla morte."
"Non è facile saper distinguere perché spesso tutto è mischiato assieme. L'esistenza, il mondo, noi stessi siamo un impasto di tutto ciò."
"In che modo si deve distinguere tutto ciò? Come distinguere ad esempio ciò che passa e ciò che resta? Non c'è un modo universale, non c'è niente di oggettivo. Cambia da persona a persona. Ognuno la sua strada nel mondo la deve trovare da sé."
"Non di tutte le cose e non di tutte le persone riconosco la funzione. Ma forse tutti abbiamo una funzionalità."
"Non c'è sostanza senza forma né forma senza sostanza."
"Che scoperta!"
"Facevo per dire! Volevo vedere se stavi attento."
"Aspetto talvolta un bagliore, un barlume di incoscienza. "
"La cosa più eccitante a volte sarebbe non visti guardare una cosa mai guardata."
"Non è colpa mia se non ispiro sesso alle donne, se non le attraggo."
"Le donne vogliono i soldi. Vogliono una sistemazione."
"A meno che non scateni in loro gli ormoni."
"Il desiderio femminile è un mistero. Noi uomini siamo più lineari, più comprensibili."
"C'era una ragazza che ha chiesto informazioni a un uomo anziano e poi dopo due minuti che parlavano lo ha caricato in macchina."
"A noi queste cose non sono mai successe. Abbiamo la faccia da bravi ragazzi o forse semplicemente non abbiamo la faccia giusta."
"Forse non ci sappiamo fare."
"Ancora credi a questa storia del saperci fare? Il saperci fare è una bugia che si raccontano i belli e i ricchi per confondere il merito con la fortuna."
"Per conquistare una donna ci vuole fortuna."
"Leopardi era solo. Era solo perché non piaceva,"
"Ed era solo perché non si approfittava del suo ruolo di conte con le contadine."
"A volte non penso al non detto, al non fatto, ma alle donne che mi sono perso."
"La retenzione del seme dovrebbe garantire creatività. A mio avviso assicura solo frustrazioni. Non sono mica un prete io! A ogni modo se non faccio sesso allora scrivo perché sono represso. Se faccio sesso scrivo per superare i sensi di colpa. Insomma non va mai bene una."
"Adesso sono le donne che decidono e io sono condannato alla solitudine."
"Ma se non vai neanche a cercarle le donne."
"Non posso ospitare. Non ho la macchina. Non ho un lavoro. Non posso viaggiare perché spenderei troppo. Le possibilità di conquista si riducono enormemente. "
"La verità è che se sei solo non è colpa delle donne né colpa tua."
"Non so neanche più come si fa."
"Alcuni dicono che sia la cosa più naturale del mondo."
"Almeno un tempo lo era. Oggi temo di no."
"Il fatto è che non saprei da dove iniziare. Non sono più abituato a essere in intimità con una donna."
"Il mio fratello un tempo diceva che era facile come bere un bicchiere d'acqua."
"Tuo fratello piaceva moltissimo alle donne. Non fa testo. È l'eccezione che conferma la regola."
"Ho ordinato il Cialis via Internet ma mi hanno fregato. L'avevo ordinato anche per un mio cliente. Mi hanno rubato 80 euro."
"Anche io una volta ordinai una bistecchiera e mi hanno fregato."
"Ti ricordi da bambini? Le ragazze del quartiere non le facevano mai uscire con noi maschi. È da allora che ci hanno rovinato la sessualità. "
"Poi le nostre delusioni sessuali e sentimentali…che merito o talento avevano quei cretini a cui andava bene con le ragazze?"
"Nessuno. Noi non avevamo niente di speciale e non eravamo niente di speciale ma quei bellocci non erano in niente migliori di noi, se non nell'aspetto."
"Hai più visto la S.?"
"No. Assolutamente no. Anche lei la ragazza più bella di Pontedera è stata sfortunata in amore. Alla fine suo marito se ne è andato con una più giovane."
"Nella vita ci vuole molto apprendistato e molto immaginario. Come per la poesia del resto."
"La sorella della S. ti disse di no. È stato un trauma per te. Che cosa aveva da fare? Poteva anche mettersi con te?!!"
"Ci sono state cose molto più traumatiche nella mia vita. Hanno molto più pesato altri no subiti. Ma ci sono stati anche i no che ho detto io che mi si sono ritorti contro."
"Che fa ora la sorella di S.?"
"Fa l'avvocatessa a Peccioli."
"Non l'ho più vista. Si è sposata, ha prole. Forse oggi neanche la riconoscerei."
"Un tempo era bimba. Oggi non è più propriamente ragazza. Oggi è una donna fatta."
"Anche noi siamo uomini fatti e teoricamente dovremmo sapere ciò che vogliamo e ciò che non vogliamo."
"Hai perfettamente ragione: in teoria."
"Ti ricordi della I.D.?"
"Che delusione sentimentale quando avevo 16 anni."
"Ore e ore a parlarci al telefono e poi lei se ne andò prima con un ciclista ventenne e poi con un belloccio diciottenne."
"Era anche nostra amica su Facebook "
"E per non so per quale motivo ci ha tolto l'amicizia. Figurati che me ne frega! Non le porto assolutamente rancore."
"Oggi è sposata, ha un figlio adolescente e ricostruisce le unghie delle donne."
"In realtà basta una piccola avversità, quasi un colpo di vento, il sorriso di una bella donna per esitare. Basta poco per scompigliare le nostre carte, per fare crollare certezze."
"Diciamocelo onestamente: noi abbiamo le nostre idiosincrasie, ma anche la gente di questo posto è idiosincrasica. Viviamo tutti di rabbie più o meno irrazionali"
"Mi vogliono far passare per un pazzo."
"Gentaglia mediocre!"
"Non so se peggio o meglio, ma ringrazio Dio o chi per lui di essere diverso. Ma a volte mi chiedo se sono così sicuro di ciò. A essere certo di ciò sarei esattamente come loro. Forse sono come me, come noi."
"La solitudine si può declinare in infiniti modi."
"La mattina vado a bere un cappuccino alla stazione. Ormai sono abituato, quasi rassicurato dalle solite facce dei soliti avventori."
"Noi stiamo discutendo del più e del meno, mentre in Ucraina imperversano la guerra e l'orrore."
"Che possiamo fare noi uomini comuni? Almeno non partecipiamo allo show televisivo."
"Noi siamo inutili, inessenziali. Siamo spettatori per quanto emotivamente partecipi."
"Nessuno è pienamente innocente. Nessuno è totalmente colpevole. Tutti hanno le loro giustificazioni da portare e le loro colpe da espiare."
"Vorrei dissolvermi anche io in questo cupio dissolvi dell'Occidente."
"Ci sono stati dati questa epoca, questa cittadina, questi cari, queste persone, queste case, queste strade."
"Non chiediamo di più. Il guaio è volere di più, cercare di più, chiedere di più."
"Ognuno arrivato a una certa età deve non dico amare il suo destino ma accettarlo in cuor suo. Bisogna farsene una ragione."
"Io per la gente di questo posto sarò per sempre un disoccupato."
"A volte mi chiedo chi sono. Ma ogni volta che provo a definirmi con delle parole mi accorgo di quanto io mi conosca poco per definirmi, di quanto non possa fare a meno di essere contraddittorio nel definirmi."
"Ci barcameniamo di metamorfosi in metamorfosi, di paesaggio in paesaggio, di passeggio in passeggio, di passaggio in passaggio."
"Avrei voglia di fermarmi a un bar, prendere una birra e guardare fuori per mezz'ora."
"Dei nostri segreti non interessa niente a nessuno. Non sono segreti di Stato e neanche sono segreti pruriginosi di ragazze."
"In qualsiasi modo e di qualunque cosa io scriva c'è sempre qualche intellettualoide che dice, scrive che bisogna fare l'opposto."
"Quando dico che questa cittadina è calunniatrice, maligna, disfattista ebbene la mia non è una identificazione protettiva."
Una volta mi si vi avvicina una critica militante e mi dice sottovoce: "ogni tuo sforzo è vano. Tanto decidiamo noi!". Io ho fatto finta di niente ma da quel momento non mi chiedo più perché alle presentazioni di libri di autori anche famosi si possono contare gli astanti con le dita della mano."
"Non serve a nulla essere un lettore forte. Non c'è nessuna ricompensa. Non puoi neanche dire la tua."
"Devi accettare ogni loro parere dall'alto, che diventa quasi un ordine tassativo, un'imposizione."
"Avrei bisogno di un 'avventura."
"Forse la ragazza e l'uomo anziano si conoscevano. Forse hai travisato tutto."
"É così facile equivocare e comunque erano liberissimi. Non sono affari nostri."
"Dovremmo andare al nightclub."
"Troppi soldi, anche se le ragazze meritano."
"Allora potresti farti fare un massaggio serio da una thailandese senza fare sesso. Così non hai i sensi di colpa del tradimento. "
"No. È meglio di no. Anche se sarebbe antidepressivo,"
"Ci vuole un contatto umano."
"Nessuno può dire la parola definitiva perché nessuna parola è definitiva."
"Non so. Ti ricordi quando da bambini facevamo i capannini e ti ricordi il profumo di erba falciata?"
"A volte quando odoro l'erba falciata mi ritorna subito in mente quella felicità."
"Per fortuna non sei Proust e non perdi tempo a scrivere un romanzo che polverizzerà Proust, come pensano di fare alcuni illusi."
"Se il mondo va male ne abbiamo solo una colpa infinitesima, quasi nulla. Preferisco non andare in chiesa che fare come Putin!"
"Comunque tra milioni di carcerati a questo mondo ci sarà un Cervantes. Tra milioni di sfaccendati ci sarà un Pessoa. Ma in fondo a pensarci bene la peggiore illusione nella vita è quella di non avere illusioni."
"Le domande sono le stesse per tutti. Le risposte non lo so. Sta di fatto che ognuno cerca le sue risposte."
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Dialogo surreale, anzi fittizio
“Non è per l’orgasmo. È per non esser solo. Non è neanche per esser solo: è per non morire per sempre. Ecco perché faccio l’amore con mia moglie. Ma sicuramente c’è anche di più. C’è del bene profondo. “ “Siamo soli io e la mia solitudine. Talvolta mi specchio in lei, ma non mi rimanda mai l’immagine di me.” “Dovremmo pensare piuttosto al male del mondo, al ma... Altro...“Non è per l’orgasmo. È per non esser solo. Non è neanche per esser solo: è per non morire per sempre. Ecco perché faccio l’amore con mia moglie. Ma sicuramente c’è anche di più. C’è del bene profondo. “ “Siamo soli io e la mia solitudine. Talvolta mi specchio in lei, ma non mi rimanda mai l’immagine di me.” “Dovremmo pensare piuttosto al male del mondo, al male nel mondo, al male in noi, al male di noi, all’orrore del mondo, all’orrore nostro”. “Rifugiarsi nelle parole, arrivare perfino ad annegare nei pensieri non serve niente.” “Per imparare a tollerare gli altri e il mondo dovremmo iniziare a tollerare noi stessi.” “La cultura non serve a niente. La libertà, la giustizia, la felicità nemmeno. Tutto è fasullo di fronte alla morte. Persino la speranza e la fede possono ben poco.” “Siamo poca cosa. Non ci resta che rimetterci al volere di Dio.” “Sempre sperando che qualcuno distingua l’errore dall’errante.” “Non mi piacciono le espressioni stereotipate, le formule di cortesia schematiche.” “Anche fare due chiacchiere è un modo per rompere la solitudine.” “Io parlo anche di me, ma non solo per me.” “Abbiamo entrambi fallito, ma non abbiamo finto. Non ci siamo mascherati.” “Mi piacciono le strade secondarie, le traverse laterali che portano in viuzze sterrate senza nome, in posti ignoti, sconosciuti, mai battuti.” “L’empatia totale non esiste. I neuroni specchio hanno i loro limiti. La telepatia è cosa rarissima. È molto difficile allineare i pensieri oppure farli corrispondere.” “Dopo due anni di pandemia ecco la guerra.” “Mia moglie è l’unica cattolica praticante a rispettare la morale sessuale cattolica.” “È da più di dieci anni che non esco con una donna. Negli ultimi dieci anni ho avuto solo due incontri fugaci.” “Il nostro ambiente è sempre stato castrante. Apparteniamo entrambi a due buone famiglie di provincia.” “La rispettabilità piccoloborghese propria e altrui ha rovinato la nostra sessualità, le nostre occasioni d’amare.” “Ho molti rimpianti e frustrazioni sessuali.” “Non devi averli. Tu amavi tua moglie. Lei ti amava. Cosa ti importa di fare tutto sessualmente? Forse ti è mancato qualche divertimento. Ma hai mancato l’appuntamento con la giovinezza non quello con l’amore: questa è la cosa più importante.” “Ci troviamo ormai solo a dei funerali.” “Mi ha fatto molto piacere che tu ci fossi entrambe le volte. È stato terribile: a distanza di un mese e mezzo una disgrazia dietro l’altra.” “Dovresti prendere degli antidepressivi. Ci sono alcuni che sono ormai degli integratori naturali, che non danno dipendenza e non hanno controindicazioni.” “Devo ancora riprendermi. Sono sempre a lavorare. La cosa peggiore è quando mi metto a pensare. Quando penso sono triste.” “La mia povera nonna diceva che un pensiero non paga un debito.” “Dovremmo andare a camminare lungo l’argine.” “Però rischiamo di trovarci tutta Pontedera a quell’ora.” “Poi potremmo andare al bar solito, quello dove vado sempre io.” “Dovevamo uscire e andare in quel bar e poi sono accadute le disgrazie.” “Non pianifichiamo niente. Tutto è provvisorio. Se programmiamo qualcosa finisce che accade un’altra disgrazia.” “Non ho voglia di uscire. Esco solo per lavoro, perché sono obbligato.” “La sorte talvolta gioca il brutto tiro della morte.” “Buon per te che sei disoccupato e non fai un cazzo dalla mattina alla sera.” “In realtà anche non fare un cazzo è un lavoro non retribuito. Dirò di più: è un’arte. Come diceva Hesse è l’arte dell’ozio. Il problema è che il mio ozio non è produttivo.” “A volte quando cammino per la strada ho come l’impressione di essere osservato. Guardo in alto verso i palazzi e scopro che c’è realmente qualcuno in alto che mi scruta. Non è forse la prova oggettiva che esiste il sesto senso?” “L’assurdo è in noi, l’assurdo è nel mondo, l’assurdo è in questo Dio inintellegibile di cui non siamo certi dell’esistenza. Questi tre assurdi fanno un’enorme assurdità.” “Meglio non pensarci. Una volta ogni tanto è bene bere una birra.” “Non leggo mai i messaggi su Messenger. In fondo chi lo usa?” “Ti ho inviato gli auguri di Pasqua via SMS , ma certe cose è meglio dirtele per telefono.” “La vita è fatta per essere vissuta e non per essere capita.” “Le stesse donne sono fatte per essere amate e non idealizzate.” “Ma si può amare una donna senza idealizzarla? In fondo bisogna sempre aggiungere qualcosa per amare veramente.” “Il vero modo per amare una donna è scoparsela. Bisogna fottere. Fottere è alla base di tutto.” “Certi si imbottiscono di Viagra. Altri per ridurre a schiava senza volontà una donna le fanno assumere degli acidi induttori. Altri la invogliano a sniffare cocaina. Ma l’importante è l’amplesso, la prestazione in sé.” “Certe donne sono molto esigenti. Pretendono a tutti i costi l’orgasmo. Ma anche loro giunte a una certa età sono patetiche nel rincorrere l’elisir di eterna giovinezza.” “Stendiamo un velo pietoso sulle schermaglie amorose, sulla guerra dei sessi di questo inizio di millennio.” “A volte ho la sensazione che siano due mondi paralleli che non si incontreranno mai gli uomini e le donne.” “Siamo alieni dai giochi di potere. È anche per questo che non abbiamo un buon posto di lavoro.” “Abbiamo sprecato opportunità. Non ce le siamo create. Dovevamo spostarci, viaggiare, trasferirci.” “Forse la verità è che per avere un buon lavoro ci vogliono delle caratteristiche che non abbiamo.” “Tu hai tua moglie. Io non ho alcuna donna. Non ho nessuna opportunità sentimentale né sessuale. A volte ho dei momenti di crisi.” “Io ho opportunità. Ma avrei troppi sensi di colpa. Mi ha detto la mia sorella che una nuova tipa mi ha messo gli occhi addosso.” “Non è la morte il problema. Ma il dopo.” “Sono andato al ristorante da Giulia. Non ho mangiato il sushi. Non mi sono adeguato all’all can eat. Ho mangiato cinese. Mai sentito roba così buona. Il ristorante aveva le luci soffuse. Era adatto per coppiette. Ho dovuto ordinare tramite computer. Ma mi sono trovato molto bene. Ero sazio ma non pieno. Ho digerito bene.” “Sono andato dalla dentista. Mi è saltata un’otturazione. Ho preso altri due appuntamenti: uno per la pulizia dei denti e uno per due piccole carie. Ho pagato con il bancomat. Ha iniziato a lavorare su una carie, ma poi ha dovuto smettere perché la gengiva era troppo infiammata, sanguinava troppo, non riusciva a vedere bene e rischiava di portarmi via troppo smalto a un dente.” “D. dove è?” “È ancora in Brasile” “Per me non si comporta molto da tuo amico. Ti invia i filmini porno fatti con le sue belle amanti scellerate, mentre sa che tu sei insoddisfatto sessualmente.” “In fondo io patisco. Ma lascio fare. Che me ne fotte?” “Da giovani non avremmo mai pensato che ci saremmo trovati così senza soldi.” “Quali prospettive abbiamo? Quale futuro abbiamo? Io e mia sorella siamo senza lavoro. Come dicevano un tempo: no future! Almeno tua sorella è un’avvocatessa. Ha la sua clientela. “ “Nei tuoi scritti non compare mai il tuo lato ludico che tu hai e io lo so che hai, conoscendoti bene.” “È un modo per passare il tempo scrivere delle stronzate su Internet.” “Mi piace ogni tanto andare su Facebook e distrarmi.” “Meglio un’amenità divertente che ti fa stare bene di una profonda verità che ti fa stare male.” “Ci sono scritture illuminanti. Ma la vita è quella. Le cose della vita sono quelle. Poche cose mi fanno sobbalzare dalla sedia. Tutto spesso dipende dal modo in cui un autore o un’autrice ti porge una piccola verità.” “Non credo a quelli che giudicano banali oppure ovvi i pensieri altrui. Spesso sono in cattiva fede. Non bisogna mai dare niente per scontato. Ci vogliono anche gli autori didascalici.” “La verità, ammesso che esista, almeno quella poca parvenza di verità, che spesso è solo buon senso, va data a tutti, anche a chi non ne vuole sapere o non può capire. L’esoterismo si basa sulla presunzione di stupidità del popolo.” “Quelli che pensano di avere scoperto grandi verità spesso solo degli impostori, truffano prima di tutto loro stessi.” “Alcuni si ricorderanno di noi solo per il fatto che non andavamo bene a scuola. Però hanno travisato tutto: si sono scordati che eravamo svogliati e demotivati. Pensano solo che eravamo duri di comprendonio.” “Di me dicono che tutti si possono laureare oppure che la laurea è stata la mia rovina, che non ero portato per l’università e che i laureati validi sono visti e presi. Insomma dicono che la mia laurea non vale niente, come me del resto.” “Fregatene.” “A volte vorrei fottere una donna, ma poi mi dico che forse non ne vale la pena. Il piacere di un momento e basta” “Il gramscismo vuole che l’intellettuale guidi la massa. In entrambi i casi abbiamo elitarismo. Comunismo ed esoterismo hanno due tipi di settarismo differenti tra maestri e iniziati. Ma sempre settarismo è, per quanto molto più sfumato nel comunismo.” “I miei pensieri più segreti sono fatti da desideri inconfessabili, ricordi inconfessabili, malignità inenarrabili sul prossimo.” “Io difficilmente riesco a pensare.” “Io difficilmente riesco a pregare. Non riesco a raccogliermi.” “Quando medito sull’esistenza trovo me, quando medito su di me finisco per pensare all’esistenza. Ma la realtà è che ho difficoltà a concentrarmi.” “Le donne che dicono di non volere uomini irrisolti in realtà vogliono uomini arrivati e di successo.” “A che serve leggere? Tanto poi a una certa età ci tocca il declino inarrestabile o la fine.” “Ma la fine sarà veramente la fine di tutto o un nuovo inizio?” “L’importante è attendere senza impazienza, senza smania la nostra ora, cercando di far passare il tempo.” “Un giorno smetteremo anche di pensare. Questi in fin dei conti sono solo piccoli pensieri in fuga.” “Che me ne importa di trovare il vuoto mentale oppure Dio? Che me ne importa dell’amore o solo di raggiungere il Sé? Mi basta solo far passare il tempo. Questa è la mia migliore filosofia di vita. In fondo sono solo un povero uomo. Ma chi è avvezzo a troppo spiritualismo o a troppo intellettualismo rischia di farsi sfuggire la vita di mano.” “La vita sfugge sempre di mano. Almeno grandi intellettuali o esseri molto spirituali hanno l’illusione del controllo o di capire più degli altri la vita.” “Della vita si può dire tutto e il contrario di tutto, ma più ci si pensa e si finisce per non capirne niente. Il fatto è che siamo punto e a capo, che non ne veniamo mai a capo.” -
Disavventure…
Ero al pub che mi stavo bevendo una birra molti anni fa. Vedo una tipa che mi piace. È con un'amica. L'approccio alla meglio peggio. È una tipa che vuole darsi un tono. Mi dice che è di Napoli. Si è laureata in legge a Pisa. Mi racconta che sta festeggiando perché quel giorno è diventata avvocatessa. Mi chiede cosa faccio nella vita. Gli rispondo che ho un piccolo negozio. Io mi complimento ... Altro...Ero al pub che mi stavo bevendo una birra molti anni fa. Vedo una tipa che mi piace. È con un'amica. L'approccio alla meglio peggio. È una tipa che vuole darsi un tono. Mi dice che è di Napoli. Si è laureata in legge a Pisa. Mi racconta che sta festeggiando perché quel giorno è diventata avvocatessa. Mi chiede cosa faccio nella vita. Gli rispondo che ho un piccolo negozio. Io mi complimento con lei. Ma la sua amica mi dice che il gioco è bello finché dura poco e lei non può certo stare a perdere tempo con me che sono un commerciante. Poi continua dicendomi che ormai è una donna in carriera. Finisco la birra e mi allontano. Penso che non è molto facile al mondo d'oggi aprire uno studio e farsi una clientela. Ma rimango in silenzio e faccio un cenno per salutare. Prendo il treno. Vado a Pisa. Me ne sto qualche ora al Gambrinus. Siedo fuori a un tavolino. Vedo passare la gente. È il mio passatempo. Non assumo alcolici. Arrivo a una discoteca nel centro della città. Non so se nel 2022 è ancora aperta. È piena. È venerdì sera e gli studenti universitari affollano la pista. Mi metto a parlare con una tipa. Dopo cinque minuti ci mettiamo a ballare. La tengo stretta a me. È davvero una bella ragazza. Tutto sembra andare per il meglio. Poi specifica che lei non è una studentessa qualsiasi fuori sede ma una normalista della classe di lettere. Mi dice che ha voluto illudermi, che si è solo presa gioco di me, che ha già perso troppo tempo con uno sfigato di merda come me, che lei è destinata a un grande futuro perché si sta laureando in una scuola di eccellenza. Mi dice di andare via altrimenti chiama il suo ragazzo. Mi arrabbio. Gliene dico quattro. Arriva il suo ragazzo per placare gli animi. Ma io sono molto arrabbiato. Ho bevuto tre superalcolici e so bene che anche se mi danno due botte non le sento perché l'alcol alza la soglia del dolore. Arrivano i buttafuori. Ci dividono pacificamente. Me ne vado deluso e arrabbiato. Certamente la normalista l'ho presa a male parole ma se lo meritava. Poi ero alticcio. Vado verso la stazione. Mi incammino. Guardo piccoli spacciatori, tossicodipendenti, barboni. Guardo un hotel nella zona che è destinato a chiudere perché non ha clientela a causa del degrado. Penso che in fondo c'è di peggio nella vita delle piccole disavventure che mi sono capitate. La vita in fondo può far male, ma qualche birra può alzare anche la soglia del dolore esistenziale. Questo è quanto.
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Una sera molti anni fa…
Ero al bar della stazione anni fa. Era un dopocena. Ero ormai ubriaco. Stavo tracannando l'ennesimo superalcolico sotto la pensilina. Parlavo con dei ragazzi conosciuti lì, occasionali compagni di sbronza. Arriva a un certo punto un tipo alto e magro, vestito bene. Tutti lo trattano con grande rispetto. È un giornalista. Ci mettiamo a parlare. Noto che mi tratta con aria di superiorità. Mi dice... Altro...Ero al bar della stazione anni fa. Era un dopocena. Ero ormai ubriaco. Stavo tracannando l'ennesimo superalcolico sotto la pensilina. Parlavo con dei ragazzi conosciuti lì, occasionali compagni di sbronza. Arriva a un certo punto un tipo alto e magro, vestito bene. Tutti lo trattano con grande rispetto. È un giornalista. Ci mettiamo a parlare. Noto che mi tratta con aria di superiorità. Mi dice che da anni sta scrivendo poesie, in parte rifacendosi a Pessoa. Ma mi dice che io non posso capire perché è sicuro che non sappia chi sia Pessoa. Lo dà per scontato perché io sono un piccolo commerciante e in quel momento per giunta ubriaco. Lui è un giornalista. Lui scrive per professione. Non scribacchia come me per diletto o per sfogo. Lui ha un ruolo sociale, una funzione sociale definita. Lui guadagna con ciò che scrive e molti lo ammirano. Io sono solo un fallito. Mi guarda spesso di sottecchi. Io gli sussurro piano che la prossima volta che cita Pessoa dovrebbe ricordarsi che era un alcolizzato che pubblicò in tutta la vita solo su qualche rivista. Niente di più. Lui mi guarda allibito. Forse non sapeva di questo particolare della sua vita. Io odio la critica biografica ma per capire un minimo la poetica bisogna sapere qualche cosa sulla vita del poeta. Forse è rimasto stupito che io sapessi queste cose. Lo saluto e vado a farmi un altro superalcolico. Poi non l'ho più visto. Ho controllato su Facebook e so che è ancora vivo. Le nostre due vite sono state come dei fili elettrici che sono entrati in contatto casualmente. Poi ognuno ha ripreso il suo cammino: io ho ripreso la mia solitudine, pur avendo smesso di bere, lui invece ha ripreso a fottersi le praticanti giornaliste o giovani collaboratrici, che più capaci di scrivere sono capaci di glorificare il cazzo e lo scrivo come pura constatazione di fatto, senza alcun giudizio moralistico. Delle sue poesie stile Pessoa non ho più sentito parlare. Questo è quanto.
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Il romanzo che non ho mai scritto…
Mi ricordo che una sera anni fa ebbi un piccolo battibecco con una barista. Alla fine lei mi rispose: "stai zitto te che non sei neanche buono di scrivere un romanzo". Era una titolare quarantenne di un bar, che poi subito dopo chiuse. Adesso non so cosa faccia. Ma non è questo il punto. Viene da chiedersi se molti siano capaci di scrivere un romanzo. Mi sono chiesto più volte se questa tipa era... Altro...Mi ricordo che una sera anni fa ebbi un piccolo battibecco con una barista. Alla fine lei mi rispose: "stai zitto te che non sei neanche buono di scrivere un romanzo". Era una titolare quarantenne di un bar, che poi subito dopo chiuse. Adesso non so cosa faccia. Ma non è questo il punto. Viene da chiedersi se molti siano capaci di scrivere un romanzo. Mi sono chiesto più volte se questa tipa era capace di scriverlo, se teneva chissà quanti romanzi nel cassetto con la stessa discrezione che avevano i nostri nonni. Io allora ero un piccolo commerciante come tanti con la passione per la poesia. Avevo una nemica che parlava male dei miei tentativi poetici, mi denigrava dal pulpito di nessuna cattedra e senza mai aver pubblicato con una grande casa editrice. Probabilmente la titolare del bar si era fidata del parere disinteressato e imparziale della mia nemica, esperta in non so che cosa ma comunque in grado di atteggiarsi molto bene e di vendere fumo a prezzi altissimi. Ma non è ancora questo il punto. Tutte le volte che volevo scrivere un romanzo prendevo in mano "Se questo è un uomo" di Primo Levi e il mio piccolo disagio, la mia infima testimonianza di vita non poteva competere con quell'incipit. Poi prendevo in mano "Una giornata di Ivan Denisovic" e anche qui capivo che quel mio tentativo era goffo, maldestro. Penso che se tutti compissero questa comparazione letteraria eserciterebbero una salutare autocensura. In realtà molti pubblicano libri che chiamano romanzi, che l'editoria e i recensori chiamano romanzi ma che di fatto non sono romanzi. Io a questa logica commerciale non ho mai voluto sottostare oltre al fatto che pubblicare a pagamento con una piccola o media casa editrice non porta a casa alcun guadagno, anzi è una sicura rimessa. Io seguivo il principio che ogni vita è degna di essere vissuta, ma che non tutte le vite, reali o immaginarie, sono degne di essere trasfigurate o romanzate. No signori: non ho mai scritto né pubblicato un romanzetto da regalare a parenti e amici. Ho scritto quasi un migliaio di poesie o aspiranti tali, circa duemila aforismi, circa centocinquanta racconti brevi e brevissimi, centinaia e centinaia di riflessioni, articoli, saggetti brevi. Probabilmente non saranno degni di nota. Comunque non ho mai scritto un romanzo. Scriveva Piero Ciampi che avrebbe dovuto pubblicare un romanzo che lo avrebbe dovuto ricondurre a sé stesso. Morì e non lo scrisse mai. Ebbene neanche io un romanzo che mi riconduca a me stesso sono mai stato in grado di scriverlo.
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Potere, pensiero e poesia…solo una breve annotazione
La prima cosa che il potere vuole è interferire su quelli che Lewin chiamava "campi di forza". Anche questo è un modo per imbrigliare le carte, per confonderci interiormente. È sempre più difficile trovare il modo, lo spazio e per molti il tempo di concentrarsi, di riflettere. Anche molte persone che svolgono professioni intellettuali non ci riescono e delegano perciò a intellettuali ri... Altro...La prima cosa che il potere vuole è interferire su quelli che Lewin chiamava "campi di forza". Anche questo è un modo per imbrigliare le carte, per confonderci interiormente. È sempre più difficile trovare il modo, lo spazio e per molti il tempo di concentrarsi, di riflettere. Anche molte persone che svolgono professioni intellettuali non ci riescono e delegano perciò a intellettuali riconosciuti il compito arduo di pensare. Però a molti cittadini oltre alla possibilità di riflettere sul mondo manca la possibilità di riflettere, di meditare sulla propria psiche, sulla propria vita; per questo chiedono aiuto a un/a analista. In poesia spesso è il testo che ci fa da analista. Oppure paziente e analista coesistono in noi stessi all'interno della scrittura, della valutazione, della censura, della revisione. In poesia uno può dar libero sfogo al suo materiale spurio psichico, così come può controllare l'inconscio. Ma l'inconscio non si può rimuovere totalmente: qualcosa sfugge sempre. Esprimere il proprio inconscio oltre che una rispettabile scelta artistica è anche un atto di libertà interiore, per alcuni addirittura una necessità interiore.
Un'altra cosa che il potere vuole fare è imporre un immaginario e un inconscio collettivo che sovrasti totalmente sull'inconscio individuale. Ho già espresso a più riprese questo concetto: l'inconscio collettivo attuale non ha più archetipi decenti perché mass media, moda, cinema, televisione non sono più mitopietici come un tempo lo era la letteratura. Oggi gli archetipi propinati sono tutti negativi. È anche questo un modo per renderci senza principi, per farci mancare punti fermi e terreno sotto i piedi. Ma non c'è solo questo. Andiamo oltre.
“Se la funzione alfa non agisce sulle percezioni, ad esempio emozioni dolorose, allora l’esperienza viene espulsa, mediante un’attività pilotata dall’angoscia. Una paziente diceva: “non mi sono dovuta alzare per andare in bagno, nel bel mezzo della notte, perché ho fatto un sogno”. Intuitivamente riconosceva che il sogno trattiene qualcosa in modo che non si debba evacuarla precipitosamente. Bion chiama questi elementi che non possono essere trattenuti nella mente elementi beta. […] Sono non-digeriti e danno la sensazione di essere cose-in-sé. Come corpi estranei all’interno della mente. Sono solo adatti ad essere evacuati perché non li si può pensare. Sono persecutori: pezzi di scarto dei quali la mente vuole sbarazzarsi; secondo il principio di piacere quel che provoca disagio viene espulso.” (Symington J e N. (1996), Il pensiero clinico di Bion, Raffaello Cortina, Milano, 1998. [p. 68]). Il potere tramite mass media, moda, pornografia non vuole che metabolizziamo gli oggetti del nostro desiderio. Non vuole che li comprendiamo, che li interiorizzamo globalmente, che li rielaboriamo criticamente e consapevolmente. Per Kernberg in questo modo non siamo più in grado come un tempo di "integrare le parti buone con quelle cattive". Il potere vuole da noi la scarica, l'acting out senza naturalmente che mai avvenga l'abreazione. Così facendo il potere cerca di ridurre la funzione alfa e di aumentare gli elementi beta. La funzione alfa digerisce tutto ciò che è psichicamente negativo. Bion usa proprio la metafora della digestione. Il desiderio non è che una delle tante cose umane su cui agisce la funzione alfa. La poesia è funzione alfa allo stato puro. Ecco perché la poesia dà noia al potere e i mass media rivolgono un'attenzione insufficiente nei confronti della poesia. La poesia è conoscenza e comunicazione dal nostro profondo al profondo altrui ed è per questo che dà noia al potere, che ci vorrebbe conformisti, frivoli, superficiali, consumistici.
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Su solitudine, desiderio e massificazione…
Scrive la poetessa Lavinia Frati che la solitudine è congenita alla nascita. Si riferisce giustamente al trauma della nascita. Aggiungo io che la solitudine la si prova durante la morte nostra o di qualcuno caro. Il mio carissimo amico Lele mi dice al telefono che la morte è un grande distacco traumatico. Insomma si nasce e si muore soli. Ma come ha detto anni fa questo Papa l'uomo non è ... Altro...Scrive la poetessa Lavinia Frati che la solitudine è congenita alla nascita. Si riferisce giustamente al trauma della nascita. Aggiungo io che la solitudine la si prova durante la morte nostra o di qualcuno caro. Il mio carissimo amico Lele mi dice al telefono che la morte è un grande distacco traumatico. Insomma si nasce e si muore soli. Ma come ha detto anni fa questo Papa l'uomo non è fatto per stare solo. Siamo animali sociali, politici, simbolici (e i simboli si devono comunicare). Abbiamo bisogno di contatti umani, di stimoli sociali. La pornografia, la società stessa imporrebbero che questi stimoli, questi contatti, queste relazioni fossero finalizzati alla sessualità e al raggiungimento dell'orgasmo. Ma esistono molte forze contrapposte nella società. A imperativi categorici puramente carnali si contrappongono altrettanti imperativi categorici spirituali. La risultante è un essere umano frastornato, distratto, ingolfato, incerto, smarrito, indeciso sul da farsi perennemente: insomma una persona che non ha fermezza, che non sa che cosa vuole; è l'essere umano che non si ribellerà mai, che non proverà mai a fare la rivoluzione perché per fare la rivoluzione non ci vuole chissà quale elevazione spirituale ma un minimo di rinuncia pulsionale. L'uomo contemporaneo di oggi è programmato per soddisfare le sue "esigenze sessuali". È un modo per controllare la nostra libertà di azione e soprattutto di pensiero. La stragrande maggioranza dei pensieri degli esseri umani in forze in questa società occidentale è fatta soprattutto da desideri sessuali. Come cantava Gaber abbiamo la libertà di fare tutto, tranne quella di pensare. Per il resto come scriveva Schopenhauer "l'uomo può fare ciò che vuole ma non sa volere ciò che vuole". Il problema è che nessuno sa perché nascono certi desideri. Un altro dilemma è come conciliarsi con il nostro desiderio. Ma il problema maggiore è che mass media, moda, pornografia ci obbligano a desiderare partner che hanno certi criteri estetici e certi requisiti. Schopenhauer è stato un profeta. Ma il dominio entro cui si deve desiderare è sempre stato imposto dall'alto, è sempre stato stabilito dal potere. Un tempo c'era più spazio per i gusti personali. Oggi nessuno ti impone chi amare, ma il potere ti indica le caratteristiche che deve avere. Oggi in questa società massificata, omologata abbiamo tutti grossomodo gli stessi desideri. La soggettività si è ridotta. Dicono "non è bello ciò che è bello. È bello ciò che piace". Ma se i nostri gusti personali non si uniformano ai canoni e ai modelli universalmente riconosciuti andiamo incontro alla disapprovazione e alla solitudine. Allo stesso tempo se noi non rientriamo in certi canoni estetici e se non rispecchiamo certi modelli andiamo incontro alla solitudine. Riconoscere tutto ciò, smontare questa macchina del desiderio, vedere questi meccanismi è il primo passo per essere autentici. Ritornando alla solitudine ci sono mille modi diversi di sentirsi, di essere soli, percezioni soggettive della solitudine tanto diverse quanto sono gli uomini. La solitudine è una cosa che non si può omologare e proprio per questo è invisa al potere perché da essa può nascere un pensiero diverso, un pensiero contro. La poesia è importante perché comunica la solitudine. Come quella di Octavio Paz per esempio.
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Sulla giustizia e sull'ingiustizia…
Che cosa ci spinge a invocare giustizia e uguaglianza dal profondo del nostro cuore quando tutto nel mondo è ingiustizia e disuguaglianza? Non è forse un'ambizione mal posta, un'utopia? Di solito quando si parla di ingiustizia ci si riferisce a quella economica. È questa che crea più sofferenza e che addirittura fa morire di fame nel mondo. Ma esiste non solo il lato Marx ma anche quello Freud... Altro...Che cosa ci spinge a invocare giustizia e uguaglianza dal profondo del nostro cuore quando tutto nel mondo è ingiustizia e disuguaglianza? Non è forse un'ambizione mal posta, un'utopia? Di solito quando si parla di ingiustizia ci si riferisce a quella economica. È questa che crea più sofferenza e che addirittura fa morire di fame nel mondo. Ma esiste non solo il lato Marx ma anche quello Freud. Ci sono le ingiustizie sentimentali, sessuali, psicologiche. La lunghezza della vita, la modalità della morte di ognuno sono diverse e ognuno può percepire come ingiuste. Ci sono lo stato di salute, le patologie, le malattie, gli incidenti. Impossibile sarebbe rendere gli uomini tutti uguali. Non sarebbe cosa umana e farlo sarebbe una forzatura spaventosa, bisognerebbe eliminare gran parte della libertà individuale e lo sforzo sarebbe vano lo stesso perché l'uomo non è fatto per essere in catene. Per eliminare totalmente le ingiustizie bisognerebbe rendere tutti uguali e tutte le vite uguali: ciò è impossibile. L'ingiustizia è fisiologica per l'umanità e per questo mondo. Si può ridurre ma non eliminare, anche perché quello che io considero giusto per un'altra persona è ingiusto e viceversa. Il valore di un uomo si vede molto da come sopporta il suo dolore e le ingiustizie subite o ciò che ritiene tali. Anche se tutta questa disparità di trattamento fosse dovuta non alla sorte ma alle capacità individuali e alle differenze individuali sarebbe comunque una grave ingiustizia. In fondo i limiti e le possibilità di ognuno dipendono da Dio e oltre a questo la psicologia delle differenze individuali non è una scienza esatta: tutt'altro. Diciamocelo onestamente: spesso la differenza tra vita e vita non è dovuta solo al merito, anche se chi ce l'ha fatta tende a percepire come unico fattore determinante solo il merito, l'impegno, la capacità, mentre tende a sottostimare la fortuna, il caso, Dio. E poi cristianamente parlando la salute, la volontà, la possibilità di impegnarsi, la capacità di realizzare un progetto, la fortuna che un'altra macchina vi venga addosso quando guidate chi ve le concede se non Dio? Certi self made man si comportano come se la sorte e con essa Dio non esistessero. È quello che in psicologia si chiama locus of control interno. Può essere molto utile, ma è una percezione errata, un'illusione che non corrisponde al vero. La dottrina cristiana dice che Dio ha dato all'uomo il libero arbitrio, ma naturalmente molti si scordano che tutto ciò avviene nel dominio e nei limiti della volontà divina perché poi alla fine è Dio che dà e toglie la vita: alla fine viene sempre fatta la volontà di Dio. Un interrogativo assillante, pressante nell'animo di ognuno è quanto ogni ingiustizia dipenda dalla sorte, dalla natura umana, dalla logica del sistema, dell'etica del singolo individuo, dalle relazioni umane che si sono venute a creare in quel determinato frangente. Poi bisogna valorizzare ogni nostra scelta, cercare di valutare, di ponderare bene, di agire con criterio, di non farsi prendere dagli impulsi, di comportarsi bene senza andare fuori di sé. Bisogna sempre ricordarsi, come cantava Pierangelo Bertoli, che "in quell'attimo c'è anche Dio".
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Sulla poesia e i poeti…
Non ho mai scritto per diventare famoso o assurgere alla gloria postuma. Molto tempo fa scrivevo per cuccare oppure per uno sfogo interiore (e la poesia nasce sempre da uno sfogo dell'animo. Ammettetelo, confessatelo anche voi cerebrali, distaccati, stoici epigoni della neoavanguardia). D'altronde c'era chi andava in palestra, chi si comprava una Mercedes o mixava canzoni per cuccare. Io scr... Altro...Non ho mai scritto per diventare famoso o assurgere alla gloria postuma. Molto tempo fa scrivevo per cuccare oppure per uno sfogo interiore (e la poesia nasce sempre da uno sfogo dell'animo. Ammettetelo, confessatelo anche voi cerebrali, distaccati, stoici epigoni della neoavanguardia). D'altronde c'era chi andava in palestra, chi si comprava una Mercedes o mixava canzoni per cuccare. Io scrivevo. Le cose che scrivevo non erano mai puro esercizio intellettuale: sono sempre rimasto ancorato alla realtà. Ma era molto tempo fa. Oggi come scrive Guccini "il cielo dei poeti è sovraffollato". Oggi ho la vaga impressione che le ragazze siano molto più prosaiche e preferiscano un lavoro sicuro, una bella dichiarazione dei redditi o alcune addirittura una foto porno dei genitali a dei versi maldestri, come i miei. Comunque il ragazzo intimista, solitario, meditabondo non è mai andato di moda. Oggi penso che la poesia sia una necessaria illusione. Io non la scrivo più ma ho bisogno di leggerla. Da una parte penso che un giovanissimo che pubblica un libro di versi a pagamento o se lo autopubblichi è doppiamente felice perché somma all'illusione della sua età quella della poesia. Ma, salvo rarissime eccezioni, è altrettanto vero, come scriveva Andrea Temporelli, che non bisognerebbe nemmeno far leggere a nessuno le cose che abbiamo scritto al di sotto dei trent'anni. Insomma non tutti sono Rimbaud. Io ho continuato a scrivere per stare bene con me stesso. Era un modo per approdare a una serenità interiore, a un equilibrio interiore. Non mi importava più il consenso né chi leggeva. Ora come ora scribacchio per il web e non so chi raccoglierà, chi recepirà ciò che scrivo. Ho la sensazione talvolta che alcuni miei amici e amiche cari e care non leggano le cose che scrivo (perché troppo impegnati sul lavoro), mentre le leggano degli sconosciuti a cui sto antipatico: è ciò che io chiamo l'eterogenesi del pubblico, ovvero non sai mai chi ti leggerà né cosa penserà dei tuoi pensieri. Insomma il web ha le sue incognite, ma queste sono in genere le incertezze di chiunque scrive perché scrivere significa anche esporsi. Leano Morelli nel 1978 cantava "non bisogna essere poeti" e quando tutti cercavano la gloria il bravo cantautore scriveva che anche se una sua poesia poteva valere poco, non l'avrebbe gettata nel fuoco perché "non si bruciano i pensieri". Si può scrivere per cogliere un attimo, eternare un momento o quantomeno tramandarlo ai posteri familiari, per quel che è possibile: c'è chi scrive saggiamente per lasciare non una traccia all'umanità ma ai suoi cari. Più vado avanti e più mi sembra che la critica letteraria indaghi a fondo le relazioni tra poetica e poesia, tra musa e poeta, ma non quella tra poesia e poeta. Sono arrivato alla conclusione che si può scrivere una poesia senza essere poeti e che si può essere poeti senza scrivere nemmeno una poesia. Ma per molti è consuetudine pensare che le poesie le scrivono i poeti e che per essere poeti bisogna scrivere poesie. De Gregori tempo fa tagliava la testa al toro e scriveva "per brevità chiamato artista". Io penso che di molti facitori di versi si potrebbe dire e scrivere "per bonaria indulgenza e senza entrare nello specifico chiamato poeta". Adesso che sto bene con me stesso non scrivo più poesie da anni. Ho altri modi per dire che mi sento solo o per raggiungere un equilibrio. Ma l'equilibrio interiore non è mai un approdo definitivo. Di volta in volta si presentano delle contrarietà a turbare l'animo. Ci sono dei cul de sac sentimentali, degli innamoramenti non corrisposti, le incertezze esistenziali e così via. Ma scrivere deve essere un mezzo per migliorare sé stessi o il mondo. La scrittura non può essere psicoticamente o nevroticamente il fine ultimo. Non bisogna mai comunque scrivere esclusivamente di noi stessi e per noi stessi. Prima bisogna vivere, quindi filosofare e poi scrivere. Anche quando uno o una ha raggiunto la memorabilità che cosa avrebbe fatto di sé stesso/a e della sua vita? È meglio non fare naufragio e non passare alla storia che viceversa. Non si può sacrificare sé stessi sull'altare della letteratura. È bene non passare alla storia e non fare la fine di Anne Sexton e di Sylvia Plath. Sarebbe bene che la comunità poetica non mitizzasse troppo il disagio esistenziale o la depressione senza esorcizzarli né stigmatizzarli. Ci sono poeti e scrittori che non si curano con gli psicofarmaci né vanno da un/una terapeuta per essere più creativi. Primo: sacrificano la loro qualità della vita. Secondo: non è detto che la loro creatività sia degna di essere ricordata. Bisognerebbe ricordarsi a tal riguardo della distinzione di Pavese tra letterati e poeti. Essere letterati è già difficile. Essere poeti è un onore/onere che spetta a pochi, secondo il celebre scrittore. Oppure bisognerebbe rifarsi alla distinzione tra scriventi e scrittori del validissimo Luigi Malerba. Però forse pretendiamo tutti troppo da chi scrive. Forse bisognerebbe giudicare con più umanità e ricordarsi questo dialogo tra un grande poeta e un giudice, che non capirà le sue ragioni:
Brodskij in "Bagatelle comuniste" riportava...
"Giudice: Qual è la tua professione?
Brodskij: Traduttore e poeta.
Giudice: Chi ti ha riconosciuto come poeta? Chi ti ha arruolato nei ranghi dei poeti?
Brodskij: Nessuno. Chi mi ha arruolato nei ranghi del genere umano?".
E poi non ci sono solo i poeti laureati, come scriveva Montale, che si muovono tra gli acanti. Ci sono anche quelli minori che osservano pozzanghere. Detto alla Bob Dylan insomma "ognuno ha la sua chiamata". Per quanto riguarda il rapporto tra esistenza e scrittura non è detto che esista una via di uscita, una via di fuga né che possa eseere trovata con la scrittura.
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Nato nel 1972 a Pontedera, laureato in psicologia.
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