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Il pomeriggio di un disoccupato…

“La letteratura non salva, mai. Tantomeno l’innocente. L’unica cosa che salva è l’AMORE, fede e ricaduta (che è come il temporale) della Grazia” (le ultime parole scritte da Tondelli di notte in ospedale…)

 Scrivendo queste righe dico subito che intendo narrare e non descrivere (scusa non richiesta accusa manifesta). Però non voglio imbastire tutto con due epifanie, qualche frase a effetto, la totale assenza di descrizioni, la frammentarietà di tutto il racconto. Certo è difficile trovare un equilibrio tra la sciatteria e la puntigliosità farraginosa. Quando si narra come ora io di nulla c’è il rischio di perdersi in mille variazioni inconcludenti sul tema, ovvero sul nulla. Mi stavo accorgendo che a più riprese ero ritornato sulla questione per me cara e scottante della disoccupazione. Prima che qualcuno mi dica di trasferirmi vi dico che non posso. Mia sorella single e disoccupata non vuole. Devo pensare anche a lei in futuro. Poi probabilmente ho perso il mio treno quando mi avevano offerto più volte lavoro nel Nord e io avevo preferito starmene con la famiglia, anche perché quando morì mio nonno ero a Padova: vorrei essere presente, se le cose andranno secondo natura, quando moriranno i miei genitori. Per ora sono fortunato perché i miei genitori mi campano e mi lasceranno qualcosa o almeno si spera. Però ho fatto anche piccole rinunce e sacrifici per farli contenti. Non posso ubriacarmi, drogarmi, fare baldoria, ospitare donne, viaggiare, fare le ore piccole, assentarmi per molte ore, essere di mani bucate, devo frequentare solo persone che vanno bene anche loro, non devo mettermi insieme purtroppo con una pornostar. La mia è la classica buona famiglia, fatta di lavoratori onesti, senza essere perbenista ma sotto certi punti di vista all’antica. Io sono più moderno. Ho un’altra mentalità ma mi adeguo per il bene di tutti. Ognuno nella sua vita ha le sue restrizioni. Nessuno è totalmente libero. Chi è libero nelle azioni spesso non è libero di testa, facendosi attanagliare dai sensi di colpa. Ma non cerco comprensione al mio disagio né tanto meno pietà: ho di che vivere per ora, anche se tutto è provvisorio e non ci sono certezze. Premetto per chi vuole leggere queste righe che qui sono espresse idee qualsiasi, comuni (non faccio mica parte dell’intellighenzia e non sono un prestidigitatore di parole), espresse anche per passare il tempo e distrarsi un poco dal pensiero del pericolo imminente di una guerra nucleare. È un modo come un altro per raccontare la mia storia. Avevo anche scritto una raccolta a metà strada tra poesia e prosa, intitolata “Cuore improduttivo”, ma avevo avuto solo qualche consenso. Non avevo avuto intenzione di pubblicarla a pagamento. Non l’avevo pubblicata a livello cartaceo, ma il mio era solo un pdf. Quindi era passata sotto silenzio. Non che fosse un capolavoro a livello stilistico, ma almeno non era pretenziosa, almeno non pretendeva d’esserlo. Insomma quella raccolta si trovava in un angolo remoto, sperduto del web in un blog letterario ormai in disuso, non più aggiornato. La ragazza che lo gestiva non sapevo neanche più cosa facesse. Non avevo più sue notizie. Lei non mi aveva più cercato e io non volevo essere invadente. Le avevo scritto una mail ma non mi aveva risposto. Mi dispiaceva tutto questo, però non potevo farci niente. Non sempre decidiamo noi. Dovevo anche rimettermi alla volontà altrui. Insomma le mie parole sembravano essere cadute nel vuoto. Più andavo avanti però e più pensavo che la disoccupazione era un argomento che si poteva coniugare in molti modi. Facevo un poco come certi afffabulatori che di fronte agli amici raccontano sempre le stesse storie, cambiando qualcosa ogni volta. In fondo l’importante è rispettare un canovaccio. Ma torniamo al punto della scrittura. D’altronde che ci volete fare? Qualcuno ha scritto che chi scrive deve sapere usare l’intelligenza degli amici. Personalmente ritengo che sia più onesto usare i propri momenti di stupidità o di scarsa lucidità, come scrisse tempo fa Aldo Busi. Io comunque non voglio essere troppo accurato perché difetterebbe la scorrevolezza. Talvolta quando si parla di scrivere di sé è come andare dal terapeuta e quasi mai vengono le parole giuste, appropriate. Quasi mai con un terapeuta, quando si parla dei propri problemi, i nostri discorsi sono fluenti, se si è veramente coinvolti e se siamo veramente interessati a risolvere i problemi. Così è anche per me quando tratto della mia vita e intendiamoci subito: non ho voglia di creare vite immaginarie per poi parlare in terza persona di me (come Flaubert). A volte mi chiedo a chi giova tutto questo? Forse a nessuno alla fine. Forse rischio di tediare qualsiasi lettore. Forse è meglio raccontare barzellette. Ma ora è giunto il momento di andare alla sostanza. La mattina io e mio padre avevamo fatto un giro presso Pisa con la macchina. Mi ero messo le solite scarpe marroni, quelle con un bel tacco. Non sapevo perché ma si slacciavano sempre. L’alternativa era mettermi un altro paio di scarpe che mi spaccavano i calcagni, me li facevano sanguinare. Mi ero fermato a guardare per un attimo quel piccolo giardino con tre peri, un arancio amaro, tre meli, una fotinia. Io non ero un grande osservatore ma mi avevano fatto notare che la fotinia, nonostante il nome strano, era una pianta comune e la si poteva trovare nei vasi del Piazzone e come siepe in una villetta accanto alla mutua. Mi ero messo la cintura. Mi ero adagiato sullo schienale della poltroncina. Pensavo di nuovo alla disoccupazione. Non avevo scadenze, impegni improrogabili, calendari. Talvolta non dormivo e ero assonnato. Anche se non lavoravo ero affamato. Anche se non ero produttivo esistevo anche io e volevo continuare a vivere. Anche io, nonostante la mia inutilità, avevo le mie esigenze. Un tempo somatizzavo di più. Soffrivo di una dermatite. Soffrivo di ansia, depressione. Avevo una sensazione imminente di morte talvolta. Poi andavo a farmi l’elettrocardiogramma e non risultava nulla di grave. Ma alla radio passavano la stupida canzone crumira “Chi non lavora non fa l’amore”. Cosa ci volevi sperare? Uno degli effetti collaterali della mia condizione è che quando ero nel chiuso della mia stanza a riflettere volevo andare fuori e viceversa. Ogni tanto quando ero fuori alzavo gli occhi al cielo e fissavo un punto indefinito, ma non trovavo mai alcuna risposta: era assolutamente inutile, anche se era un riflesso incondizionato. Ci eravamo fermati a prendere un cappuccino in un bar di un ultras del Pisa. Me ne ero accorto dallo stemma impresso con uno spray su un vaso fuori dal locale. Il bar era bello. C’era anche una sala spaziosa per pranzi e cene. Un tempo frequentavo una comitiva di ultras del Pisa. Non sono mai andato a una partita. Non mi interessava, per quanto fosse una passione rispettabile. Poi li ho persi di vista. Parlo di molti anni fa. Al bar c’era gente. Con il fatto che era festa molti bar erano chiusi. Era stata un’impresa trovarne uno aperto. In macchina avevamo ascoltato un poco di radio Vintage e poi avevo inserito il CD di Guccini. Avevamo fatto rifornimento di Gpl due giorni prima. C’erano ancora due spie verdi. Non saremmo rimasti a piedi. Mio padre mi diceva che ogni volta che camminava nei pressi del supermercato dei germani gli svolazzavano vicino e poi si riposavano nel fosso, sempre curato. Mio padre voleva a tutti i costi andare a comprare una colomba. La pasticceria era chiusa. Allora ha aperto il finestrino e si è messo a chiedere informazioni. È in quel preciso momento che ho visto un mio ex amico che un tempo piaceva molto alle donne per la sua bellezza. Ho visto come era invecchiato precocemente o forse era solo molto trasandato. Allora non ero solo io. Voi non lo sapete ma mia madre non faceva che dirmi che la mia camera era in disordine per via dei libri e che non avevo cura della mia persona. In fondo io mi paragonavo spesso coi più giovani che vedevo a giro, ma il termine di paragone più appropriato, il confronto più onesto sarebbe stato con quelli della mia età. A un certo punto stava per succedere un incidente. Una macchina aveva fatto retromarcia e per poco non aveva colpito un ragazzo, che sfrecciava col monopattino. Mi ero messo a ricordare la ragazza cinese del bar della stazione in cui andavo a prendere il caffè. Ci scambiavano solo il buongiorno. Ma forse eravamo in contatto telepatico senza neanche saperlo. Una volta arrivati a casa, mi ero riposato un’ora. Ero sempre perso dai soliti pensieri. Niente di nuovo. Nessuna novità. Niente di originale. Pensavo che avrei voluto andare a Lucca in un nightclub ad assistere a uno spettacolo di Valentina Nappi, ma non c’era nessuno che mi portava. Non avevo nessuno con cui andare e non potevo a quell’ora andare con il treno o con l’autobus. Quindi niente da fare. Mi toccava rimandare. Avrei visto in un’altra occasione Valentina Nappi. Avevo pranzato con carne e patate fritte. Sul finire una fetta di schiacciata di Pasqua. Ero subito corso in bagno per un bisogno impellente. Mi ero lavato i denti. Avevo passato il filo interdentale. Avevo fatto gli sciacqui col colluttorio. Avevo riposato per due ore. Mi ero anche connesso a Internet. Avevo letto un articolo sulla reincarnazione del dottor M.Newton, che ha lavorato per quarant’anni facendo ipnosi regressiva. Avevo riletto i passi sottolineati del “Libro tibetano dei morti”. Quindi mi ero messo a leggere due passi dell’Ecclesiaste. Ero andato su Facebook. Poi ero andato in cucina e avevo fatto cento volte avanti e indietro, mentre mia madre e mia sorella guardavano imperterrite la televisione. Ero uscito fuori per accarezzare il cane. Ero partito per il bar. Avevo preso mascherina, green pass, telefonino, spiccioli, portafoglio, chiavi. Ero ritornato dal bar accaldato. Era primavera. Non si sapeva come vestirsi. Mi ero messo addosso un giubbino, ma non avrei dovuto perché non era assolutamente freddo. Avevo appena fatto quattro chiacchiere con Giulia, la ragazza del bar dove andavo di solito. Quel bar distava circa un chilometro da casa e per arrivarci attraversavo tutto il quartiere della Sozzifanti, stando sempre con gli occhi bassi e sempre attento a non pestare escrementi di cane. Camminavo talvolta con le mani in tasca. Cercavo un poco di gente, ma odiavo il trambusto. Cercavo una donna, se possibile, ma non ero pronto per un legame affettivo stabile. Forse la cosa migliore sarebbe stata andare a passeggiare nel cimitero perché tanto prima o poi quella è l’ultima destinazione, il nostro soggiorno eterno. La Sozzifanti era sinonimo di serenità per me. Mi piaceva quell’insieme disomogeneo di abitazioni (palazzi, ville, villette, negozi). Era una zona concreta, pragmatica. Non conoscevo nessuno. Nessuno mi conosceva. Potevo camminare indisturbato da solo senza aspettare che qualcuno mi fermasse, senza l’obbligo di conversare o salutare nessuno. Mi ero trasferito quattro anni prima. Facevo sempre lo stesso tragitto ogni giorno. Facevo sempre lo stesso identico percorso. Evitavo accuratamente un bar sotto i loggiati, dove qualche volta c’era una mia vecchia conoscenza che non volevo vedere. Non che avessi niente contro quel bar o contro quel barista, ma ritenevo opportuno evitare. Perché cercare noie, problemi, guai? Scansavo i passanti. Mi distanziavo da loro. Talvolta mi spostavo sull’altro lato della strada. Avevo preso un caffè. Costava solo un euro. Il cappuccino costava un euro e venti. Una birra da 33 centilitri solo due euro. Una birra da 66 centilitri solo tre euro. Erano i prezzi più economici della zona e forse addirittura di Pontedera. Giulia sapeva mettere a suo agio i clienti. La sera dopocena quel locale era molto frequentato. Giovani di tutte le nazionalità andavano a farsi qualche birra. A ogni ora del giorno c’era anche un viavai per le slot machine. Comunque io spesso andavo a prendere un caffè verso le 3 o le 3 e mezzo. A quell’ora, un poco morta, c’erano poche persone. I più erano al lavoro. L’ambiente era tranquillo, informale, accogliente. Avevo affrettato il passo. Ero arrivato a casa. Mi ero messo in camiciola. Avevo posato le scarpe in garage. Mi ero messo le ciabatte. Indossavo i pantaloni del pigiama. Un poco sudavo ancora. Delle gocce imperlavano la mia fronte. Ero andato a sciacquarmi tutto al lavandino. Avevo fatto le solite abluzioni per non puzzare. Ma ancora non smettevo di sudare. Mi ero anche cambiato. La fronte era sempre madida. Poi avevo sceso le scale. Il corrimano era da aggiustare. Dovevo fare attenzione ed essere delicato nel reggermi; non potevo aggrapparmi con tutte le forze. Guardavo la finestra. Scrutavo gli alberelli di biancospino, che sembravano esili e invece resistevano a ogni intemperie, a ogni temporale, a ogni tempesta. Non esattamente come me. Mi ricordava una foto di mio nonno materno, nato nel 1896, che dietro una sua fotografia in cui era ritratto accanto a una quercia aveva scritto: “qui sembro resistente come una quercia, mentre in realtà…”. Tutto ciò era una banalità, ma la cosa più profonda, se ci pensate bene, erano proprio quei puntini di sospensione finali. C’erano solo due macchine parcheggiate in quello spiazzo e non sapevo di chi fossero. Guardavo l’edificio che stavano ristrutturando. C’erano alcuni operai coi caschi che lavoravano lì anche in quel giorno di festa. Vedevo che la gru si stava muovendo. Avevo sempre paura che qualcuno cascasse dalle impalcature. I lavori stavano procedendo bene. Il comune di Pontedera aveva fatto le cose, come si dovevano. Lì ci sarebbe stata una scuola media e sarebbe stata intitolata a Dino Carlesi, poeta e critico d’arte locale. Avevo letto diverse raccolte di sue poesie. Quella che mi era piaciuta di più era “In forma di quindici”, dove si trovavano tutti i suoi versi d’occasione agli amici per la fine dell’anno, un modo per fare il consuntivo di ogni anno. I suoi versi erano contrassegnati da una nominazione precisa e talvolta da un alone di indeterminatezza, segno inequivocabile di un giusto equilibrio tra conscio e inconscio. Ma non voglio scrivere alcuna nota critica su Carlesi. Era solo un input, meglio ancora una precisazione. Nel parcheggio una bella ragazza bionda, slanciata, magra, con tutte le curve giuste stava camminando e si stava fumando una sigaretta. Poi si era fermata a smanettare col cellulare. Ignorava che la stessi osservando. Ignorava perfino la mia esistenza. Aveva poco più di venti anni. Cercai di ricordarmi come ero grossomodo alla sua età e se avessi potuto avere le mie carte da giocare con una simile bellezza. Mi immaginai per un attimo che quella ragazza fosse una prostituta occasionale che stava adescando clienti. Ma non lo seppi mai. La cosa più probabile è che stesse aspettando il suo ragazzo o un’amica. Se fosse stata una prostituta va detto che anche per i più mondani e esperti è difficile, talvolta impossibile saper distinguere una ragazza seria da una prostituta e lo scrivo senza alcun moralismo. È solo che l’apparenza inganna e non perché pensavo che in ogni donna c’è una prostituta. Mi sarebbe piaciuto fare una pazzia: correre fuori mezzo svestito e cercare di approcciarla. Ma c’erano alcuni freni inibitori che mi facevano desistere da fare le prime cose che mi passavano per la mente. Per primo avevo 49 anni. Inoltre avevo dei vicini, che seppur squisiti, non potevo stupire negativamente. Poi avevo 24 denti in bocca, avevo la pancia, ero un poco incurvato, avevo una calvizie incipiente che cercavo di nascondere tenendo i capelli molto corti. Così non passai all’azione. La bella passante scomparve dal mio campo visivo in meno di un minuto. Poi non l’ho più vista. Forse non è mai esistita; è stata solo un parto della mia immaginazione, un’allucinazione pomeridiana. Forse il mio desiderio più grande era entrare nel corpo e nella mente di una donna. Avrei soddisfatto una donna? Le donne erano sempre più esigenti ma sapevano fingere molto bene. Molti uomini erano ingenui e credevano alle loro bugie. Un tempo mi chiedevo chi era più solo di un bambino che ascoltava nella stanza accanto i gemiti dei genitori. Poi mi ricordai che un mio amico ascoltava gli amplessi dei genitori nella stessa stanza perché dormiva con loro: dormiva in un letto a una piazza di fianco a quello matrimoniale dei genitori. Quindi, al di là di ogni scena madre, c’è sempre qualcuno più solo di noi. Alla solitudine non c’è mai fine. Guardai in basso. Guardai le piastrelle bianche che si sporcavano con poco. Bisognava pulirle quasi ogni giorno. Aprii il frigo per versarmi da bere un poco di acqua fresca. Pensai anche alla guerra, ai morti, all’orrore. Pensai che la sospensione di incredulità bisognava applicarla più a questo mondo che alla fantascienza. Mio padre era andato a passeggiare con una sua amica, che aveva problemi di deambulazione. Lui l’aiutava. Facevano quattro passi nella zona industriale, che aveva dei marciapiedi sfatti e a tratti ricoperti di erbacce. Ma non era colpa dell’incuria. Ogni zona industriale aveva le sue piccole pecche. D’altronde una bella donna non si giudica da un neo. Esistono inoltre anche i cosiddetti nei di bellezza. Avevo parlato con Giulia al bar. In fondo io andavo al bar anche per fare due chiacchiere, per un poco di convivialità. Altrimenti ne avrei fatto a meno! Altrimenti avrei potuto farmi il caffè a casa con la moka o con la macchinetta! Invece una volta al giorno mi recavo lì per fare un poco di conversazione oppure per ascoltare un frammento di conversazione tra la barista e qualche cliente. È vero: in casa spendevamo per i caffè al bar, ma era ormai l’unico modo per socializzare un poco. Dopo due anni di pandemia in cui avevamo fatto vita molto ritirata quella era l’unica socialità rimasta. Era l’ora di dare da mangiare al lagotto. Il primo pasto lo faceva appena mi alzavo. Gli davo dei croccantini. Poi faceva lo spuntino con due fette di pane quando pranzavamo. Quindi cenava alle 6 del pomeriggio sempre con i croccantini. Infine faceva l’ultimo spuntino quando cenavamo noi con delle bucce di mela e delle croste di formaggio. Insomma non gli mancava niente. Faceva la vita del beato porco, anzi del beato lagotto! Aveva 10 anni ormai. Li avrebbe compiuti a maggio. Lo avevamo preso da un allevamento vicino a San Miniato. Non lo portavamo mai a fare tartufi perché avevamo paura; nel bosco mettevano polpette avvelenate. Era la solita guerra tra tartufai, anzi bisogna dire tra trifolai. Il mio lagotto oltre a essere molto affettuoso era molto furbo. Era geloso del suo ciottolo. Per non farlo abbaiare, ogni volta per ritirare il ciottolo, dovevo dargli una menatina di croccantini. Oramai c’era così abituato che mi avrebbe morso se non avessi eseguito quel rituale. Arrivò mio padre. Aveva le chiavi. Aprì la porta e subito ci disse che la sua amica era cascata di nuovo, anche se non si era fatta niente. E dire che un tempo lei era titolare di una ditta, girava il mondo per lavoro, abitava in una villa e guidava belle macchine! Nessuno sa cosa gli riserva il futuro, tanto meno la vecchiaia! Mio padre aveva gli acciacchi dell’età ma era ancora in gamba. E io chi ero? Ero un disoccupato cronico con nessuna aspettativa per il futuro, con un passato da laureato in psicologia, da commerciante di mobili e abbigliamento per pochi anni. Non mi accadeva mai niente. La mia vita era fatta di noia. Ma in fondo andava bene così. Io sapevo benissimo che ogni novità sarebbe stata tragica o drammatica. Ci voleva mestiere anche a non fare niente. Ormai l’unico mestiere che sapevo fare era quello di non fare niente. Realisticamente parlando, chi mi avrebbe dato un’opportunità alla mia età? Avevo anche provato al bar solito che frequentavo. Cercavano un/a barista. Avevo chiesto se volessero una persona con esperienza. Mi avevano risposto che un minimo di esperienza era indispensabile. Il giorno dopo avevano aggiunto al foglio con l’annuncio, affisso sulla vetrata: “con un minimo di esperienza”. Non avevano trovato nessuno e allora la titolare aveva deciso di chiudere il martedì quando prima il bar era aperto tutti i giorni. Tempo fa avevo inviato il mio curriculum alla Piaggio e avevo scritto “disponibile a fare turni”. Non mi avevano mai chiamato. Non mi avevano mai voluto nemmeno come operaio. Insomma nessuno mi voleva. Inviavo curriculum ma nessuno mi chiamava. Tutto era vano ormai, tutto era inutile. Non avevo neanche una storia da raccontare. Con le donne il rapporto era inesistente. Non uscivo con una donna da più di dieci anni. Non sapevo neanche più come relazionarmi, come rapportarmi con una donna. Come presentarmi con una donna? Potevo presentarmi così: “piacere Davide Morelli, disoccupato”. Qualcuno mi aveva detto di interagire naturalmente, ma io non ero più abituato. Le relazioni sociali e anche quelle sentimentali non sono solo naturali. A ogni modo il problema non si poneva perché l’opportunità non si era presentata. L’essenza della mia solitudine era il nulla. L’essenza della mia vita era noia e alienazione, come la stessa essenza della civiltà occidentale, anche se la gente cercava di dimenticarsene bevendo drink, facendo party, scopando a più non posso. Finiva poi per eterogenesi dei fini che scopare diventava l’essenza stessa dell’Occidente, che in fondo era solo il modo più facile e sbrigativo di stimolare il nucleo accumbens. Io comunque avrei avuto bisogno di fare sesso con una donna. Era da tempo immemorabile che non lo facevo. Ma sarei stato in grado di soddisfarla? Forse era meglio rinunciare già in partenza. E cosa avrei potuto garantire? Assolutamente niente. Recentemente avevo avuto delle piccole infatuazioni virtuali con letterate, ma non mi avevano mai considerato. Purtroppo o per fortuna. D’altronde ero un essere umano anche io con i suoi limiti e le sue debolezze. Che ci dovevo fare se mi piacevano ancora le donne? In fondo mi attiravano. Ma la ricerca era infruttuosa, anche se a onor del vero non mi proponevo mai, non ci provavo più come un tempo. Insomma non succedeva mai nulla di interessante né di buono. A ogni modo non avevo niente da dire. E poi cosa rimaneva da dire? Tutto era stato detto. Restava solo da scrivere delle note a margine, delle postille. La storia della mia vita non era da trasfigurare né da romanzare. Non avrebbe interessato nessuno. Ero troppo vecchio per creare mondi fittizi o surreali. Il realismo magico esisteva già. L’esistenzialismo pure. Non avevo voglia di ripetere ciò che altri molto meglio di me avevano già detto. Eppure forse anche io potevo dare il mio infinitesimale contributo, il mio microscopico apporto lasciando la mia testimonianza. Ma anche questa a chi sarebbe interessata? Forse dovevo scrivere più per me che per il mondo, ma avevo questo impulso irrefrenabile di scrivere. Non potevo razionalizzare. Insomma non avevo niente da dire e da fare, ma dovevo dire al mondo che non avevo niente da dire e da fare. A me non interessava avere stile né saper scrivere secondo i canoni letterari. Chi scriveva più secondo i canoni letterari? Anche i critici letterari che li imponevano agli altri se ne discostavano se si mettevano a scrivere prosa. Comunque io volevo scrivere come pareva a me senza seguire mode o dettami. Costasse quel che costasse! Importante è che esprimesse me, la mia condizione, il mio essere nel mondo nel modo più onesto, genuino e autentico possibile. Vedevo troppa cura nei dettagli di molti autori, ma a volte pensavo che fosse una posa perché vivere nella migliore delle ipotesi è prendere il mondo come viene grossolanamente. Qualche intellettualoide diceva che ci voleva distacco, che ci voleva distanza, che non poteva essere uno sfogo. Poi gli stessi si facevano le pippe sui loro ricordi di boomer privilegiati, che picchiavano il prossimo in nome della rivoluzione e raccontavano ancora quegli eventi senza condannare mai quelle violenze, senza un minimo di autocritica o pentimento (perché per loro per cambiare l’ordine delle cose una certa violenza era necessaria, anzi fisiologica). Dirò di più: alcuni vecchi illusi cercavano di fare proseliti, però si accontentavano di qualcuno a cui raccontare le storie dei bei tempi andati. E poi nessuna opera trattava della disoccupazione. Nessun autore disoccupato trattava della sua disoccupazione, che avrebbe rappresentato migliaia di disoccupati. Sarebbe stato un io misero che avrebbe rappresentato un noi. Sarebbe stata una prima persona plurale. Ma forse nessuna casa editrice non a pagamento avrebbe pubblicato una cosa del genere perché non aveva mercato: le persone volevano divertirsi, non pensare e non leggere le solite lagne. Inoltre io non ero neanche disoccupato. Ero andato all’ufficio di collocamento e mi avevano detto che in quanto ex commerciante non potevo essere annoverato tra disoccupati, che non mi spettava nessun sussidio né nessun reddito di cittadinanza. Ma veniamo alla questione dell’io. Apro una piccola parentesi. L’intrapsichico nasce dall’interpsichico: è ovvio. Ma è incompleto perché l’interpsichico non sarebbe possibile senza ciò che è specie specifico. L’io non è possibile senza gli altri. Gli altri non sono possibili senza l’io. Che la critica letteraria affermi la rimozione dell’io lirico e stabilisca che l’io è solo introiezione degli altri quando gli altri possono essere proiezione dell’io ebbene a me tutto ciò pare assurdo, considerando il fatto che ogni opera è affermazione dell’io. L’io è il più lurido dei pronomi per Gadda. L’io è una convenzione grammaticale per Nietzsche, che anticipava Pirandello per cui siamo uno, nessuno e centomila. A me sembra che questa avversione della critica nei confronti dell’io sia forse dovuta a un’utopia collettivista. Oppure forse è un modo per riequilibrare le sorti, tutte a vantaggio dell’io, nella poesia. È vero c’è troppa ipertrofia dell’io in poesia, in narrativa. Ma almeno lo si dica a chiare lettere. Comunque non era questione di vita o morte la questione dell’io lirico. Non ne avrei nemmeno discusso nei circoli letterari. Non frequentavo circoli letterari. Come avrei potuto presentarmi? Forse come disoccupato? Quando mai? Non mi avrebbero minimamente considerato. Avevo ben altro a cui pensare. I miei scritti sarebbero stati il classico express your self, ma al mondo d’oggi tutti vogliono esprimersi e anche i più saggi non si discostano dall’express your self! In definitiva i geni esistono (e io non lo sono) ma non sanno più fare i geni. La realtà è troppo mutevole, troppo complessa. Il mondo è un enorme caleidoscopio. È per questa ragione che i geni in origine finiscono per fare i talenti, i talenti in origine finiscono per fare i mediocri e i mediocri in origine finiscono per non dire nulla. Si tratta di un immenso scadimento collettivo. I raggi di sole obliqui entravano nella cucina, ormai fievoli. Era quasi la fine del giorno. Così mi recai dietro in giardino, in quei quattro metri quadri di giardino che avevo, per assistere al tramonto. Fu così, come molte altre sere, che ascoltai il tramonto in religioso silenzio. Il cane mi siedeva accanto, di fianco, in silenzio; sapeva che non volevo essere disturbato. Al massimo poteva baciarmi la mano o saltarmi addosso, ma non doveva abbaiare a nessuno, neanche alle autoambulanze, ai vigili del fuoco, ai cani e ai loro padroni che passavano nella strada. Mi sedevo e me ne stavo in silenzio a guardare i colori lividi del tramonto che incendiavano l’orizzonte là nei pressi delle pale eoliche, dove la notte si ritrovavano le coppie scambiste per fare gli incontri. Non era poetico ma era così. Il mondo è prosa perlopiù. Vanno avanti i prosaici. Ai poetici restano gli avanzi, anzi le briciole. Ritornando agli scambisti, un mio amico si era iscritto, perché raccomandato, a un gruppo Telegram di scambisti della zona. Ma aveva fatto troppa ironia. Uno gli aveva chiesto se aveva una compagna disponibile e lui aveva risposto che sua moglie era contraria a fare quelle cose. Allora era stato subito espulso. Insomma la goliardia aveva avuto la meglio su quel poco di desiderio e sulla tanta curiosità che lo animava. Era finito un altro giorno, che non era stato affatto memorabile ma forse neanche da dimenticare. Comunque non era colpa mia se la memoria considerava la maggioranza dei giorni dei dettagli insignificanti e non li archiviava. Anche questo giorno era passato. Avevo dato da mangiare al cane. Avevo svuotato la lavastoviglie e apparecchiato la tavola. Avevo messo le medicine di tutti in tavola. Avevo già preso la statina per il colesterolo. Non c’era altro da fare. Salii le scale per ritirarmi nel mio sottotetto adibito a camerina. Mi sarei messo a letto in attesa di cenare, trangugiando due tramezzini al prosciutto del costo di 1 euro l’uno, comprati al supermercato. Erano un’eccezione quei tramezzini. Le altre sere invece mangiavo le friselle con pomodoro e condite con l’olio. Andai su. Un tempo mi sarei rigirato nel letto, rimuginando le mie fantasie erotiche, ma ormai non ero più giovane. Pensai ai miei pensieri. Pensai anche che a un certo punto bisogna lasciarsi trascinare dalla corrente come foglie e non mi importava se era una metafora abusata. Avrei voluto che diventasse una mia regola di vita. I miei desideri talvolta mi sembravano fili dell’alta tensione, ma non prendevo ancora il Viagra perché un tempo ero stato giovane e avevo a differenza di altri vissuto la giovinezza. Avrei fatto un torto prima di tutto a me stesso a considerarmi vecchio o totalmente fuori gioco. Forse avevo ancora da dire la mia. I miei pensieri ormai erano quasi gli unici effetti personali. Si faceva per dire ormai. Altri imperativi categorici: sopportare che ogni anno nella memoria era una rapida sequenza di immagini, mai snaturarsi, mai cercare di cogliere tutti i nessi, ritenere che nella vita il problema non era avere la vertigine ma scongiurare la voragine, considerare che nessuno aveva mai totalmente torto o ragione. Concludendo, la vita non andava nel verso giusto, ma non lo sapevo se era colpa unicamente della vita o anche di me, che non andavo nella giusta direzione. E poi esisteva davvero un verso giusto? Si poteva essere in infiniti modi e la vita stessa aveva infinite forme. Sarebbe arrivata la sera, poi la notte; la sera e la notte si sarebbero prese gioco di me come donne che non ci sono state, come parodie postmoderne e pluriorgasmiche di locandiere goldoniane. Quel giorno era finito. Condividi:

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