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Quasi d'amore…miniracconto

Un tempo molti anni fa avevo una ragazza più giovane di me di qualche anno. Lei aveva smesso di studiare e lavorava come barista. Io lavoravo in un collegio, che lei aveva frequentato per tre anni. C’eravamo conosciuti lì in un giorno d’estate assolato  che tirava forte il vento, spettinandole  i capelli e  facendo  mulinelli di polvere nel campetto di calcio. Mi confessò in seguito che non l’avevo colpita per la bellezza ma per l’aria da sfigato. Mi disse spudoratamente che era molto gelosa e voleva un uomo che non fosse piacente. Insomma le piaceva la mia aria di ragazzotto non bello ma qualsiasi (per usare un eufemismo) senza arte né parte, senza infamia e senza lode. In pratica mi scelse perché sapeva che io non sarei mai stato conteso dalle ragazze. Mi lasciò il numero di telefono. Ci facemmo prestare una penna in segreteria e me lo scrisse su una mano. Io in verità non ero innamorato di lei, ma mi accontentavo. Comunque le volevo bene ma come amica. Un giorno mi disse che mi aveva sognato. Io ero a divertirmi con gli amici, mentre lei era sola a casa. Ma la realtà era un’altra: le ragazze quasi mai rimangono da sole. Facevo circa venti km in bicicletta per andarla a trovare. Oppure a volte andavo a piedi. Tornavo a casa con i piedi sanguinanti a notte fonda e il mattino dopo avrei dovuto lavorare. Ma ero giovane e certe cose si possono, si devono fare da giovani per viverle e magari anche un giorno in piena maturità raccontarle, giudicando me stesso di allora con indulgenza. Andavamo nei campi di grano a fare l’amore e poi a fumare. Una volta un contadino ci sorprese nella sua proprietà e sentendomi parlare in toscano mi inseguì con un forcone al grido di “maledetto terrone lascia stare le ragazze padane”, mentre lei fortunatamente la lasciò stare. Era piacevole sentire la brezza dopo aver fatto sesso. Lei si avvinghiava a me perché ci teneva, perché per lei ero importante.  Io lasciavo fare. Non mi sarei sposato con lei. Non avrei fatto un figlio con lei. Non l’avrei portata a casa. Non era così crudele quel che chiamavano amore? Lei era innamorata di me, mentre io pensavo ancora a una studentessa di psicologia,  che mi aveva rifiutato e non mi riusciva scacciare dalla testa né dal cuore. Tutto ciò era profondamente ingiusto per entrambi. Era crudele l’amore perché il sentimento non sempre era allineato con la carne, il bisogno con la disponibilità effettiva.  Io pensavo all’amore in tutte le sue forme, in tutte le declinazioni e non capivo. Neanche lei capiva e a volte mi diceva che mi vedeva distante, assente, distratto, lontano mille miglia da lei. Ma se è vero che l’avevo illusa non volevo deluderla e così decisi che non l’avrei mai lasciata. Così finì che mi feci lasciare da lei. Un giorno mi portò il suo nuovo ragazzo al collegio e mi disse che mi lasciava, che mi aveva tradito, che lui era mille volte meglio di me. Da una parte essere stato con lei mi aveva inorgoglito perché avevo fatto una conquista, ma dall’altra ora mi sentivo veramente libero, anche se solo. Lei aveva un nuovo amore e se lo meritava. Questa volta era davvero ricambiata. Io ero di nuovo solo, però appagato. L’amore era senz’altro crudele in un quel  giorno assolato con il vento che le scompigliava i capelli,  creava mulinelli di polvere nel campetto di calcio, mentre mi diceva addio, baciandosi sfrontatamente con il nuovo moroso. Che cosa fosse o non fosse l’amore ancora non lo sapevo e le mie domande rimanevano ancora senza risposta. 

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