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davide morelliOffline

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  • Memorandum per non illudersi…

    Ricordati quando parli con la commessa del negozio e lei ti fa un sorriso smagliante da 32 denti bianchi, che a te erroneamente pare ammiccante…quando vai a comprare una macchina, un appartamento, un elettrodomestico e la ragazza adibita alla vendita ti sembra così affabile e carina con te, risvegliando al contempo il tuo desiderio sessuale e il tuo istinto di acquisizione…quando la guardarob... Altro...

    Ricordati quando parli con la commessa del negozio e lei ti fa un sorriso smagliante da 32 denti bianchi, che a te erroneamente pare ammiccante…

    quando vai a comprare una macchina, un appartamento, un elettrodomestico e la ragazza adibita alla vendita ti sembra così affabile e carina con te, risvegliando al contempo il tuo desiderio sessuale e il tuo istinto di acquisizione…

    quando la guardarobiera della discoteca ascolta i tuoi problemi esistenziali...

    quando la rappresentante di carte di credito sembra approcciarti in modo così diretto e inequivocabile...

    quando la ragazza del call center con una voce suadente vuole intrattenerti al telefono e sembra con i suoi modi così gentili prometterti mari e monti...

    quando sei stato testimone di un fattaccio e la giornalista vuole intervistarti e sembra così interessata a chi sei e alla tua vita…

    quando una segretaria dei corsi di informatica ti tratta  come se fossi una persona speciale, addirittura unica…

    quando la rappresentante del Folletto o una sondaggista ti fanno gli occhi dolci e ti chiedono gentilmente se hai 5 minuti per loro...

    quando fai 4 chiacchiere con la cassiera del supermercato o con la barista del locale sotto casa…

    quando vai a sentire come va a scuola tuo figlio e la professoressa sembra così interessata alla tua vita e a quella della famiglia…

    quando vai dalla dottoressa e lei si preoccupa della tua salute e ti sembra così premurosa...

    quando vai al nightclub e la ragazza ti si siede sulle gambe e dice cose carine sulla tua virilità, sfruttando l'investimento narcisistico che ogni uomo ha per il suo pene…

    quando vai con una massaggiatrice seria, con cui per mezz'ora hai un contatto fisico antidepressivo…

    quando vai a letto con una tua segretaria, dipendente o sottoposta sul luogo di lavoro oppure in un hotel…

    quando vai con una escort in una città lontana e lei sembra volerti fare anche da terapeuta o quantomeno da assistente sociale…insomma sembra prendersi cura di te...

    ebbene allora ricordati che non devi equivocare, non devi fraintendere:  loro sono lì per lavoro, lo fanno per lavoro. Potresti essere tu come chiunque altro e per loro sarebbe uguale. Ricordati che per loro non hai niente di speciale; per loro è routine, per te quei momenti sono di svago ma per loro è lavoro, per loro non sei che uno dei tanti,  per loro sei uno qualsiasi,  sei un numero e ricordati anche  che sono pochissime le persone per cui la passione diventa lavoro o viceversa il lavoro diventa passione: ricordati piuttosto che nella stragrande maggioranza dei casi lavoro e passione non coincidono. Ricordati che in fondo sei uno dei tanti omuncoli attempati, ancora libidinoso e immaturo come un ragazzino, che sta perdendo colpi. E sotto sotto queste gentili donzelle ridono di te quando te ne sei andato. 

  • Al bar per Pasqua…

    I parenti non sono ancora arrivati. Ho finito di mangiare. Mi sono già steso sul letto e ho fatto la mia pennichella. La mia controra è già trascorsa. Decido di vestirmi per andare a prendere un caffè al bar. Prendo un euro perché là costa solo un euro. Di solito c'è sempre qualcuno che cammina, che va o che viene sui due lati della strada principale,  che faccio sempre. Invece oggi è... Altro...

    I parenti non sono ancora arrivati. Ho finito di mangiare. Mi sono già steso sul letto e ho fatto la mia pennichella. La mia controra è già trascorsa. Decido di vestirmi per andare a prendere un caffè al bar. Prendo un euro perché là costa solo un euro. Di solito c'è sempre qualcuno che cammina, che va o che viene sui due lati della strada principale,  che faccio sempre. Invece oggi è festa. Rimango fino all'ultimo incerto e penso che forse anche il bar è chiuso. Intravedo che il ristorante accanto è chiuso. Ma poi vedo un uomo che entra nel locale. Affretto il passo. Mi metto la mascherina. Apro la porta. Saluto la barista. Ci rifacciamo gli auguri. Prepara il caffè.  Mi chiede se ho pranzato in famiglia. Le dico che ho mangiato troppo e che ho mangiato anche due fette di pastiera. Anche lei mi dice che ha mangiato troppo. Poi si mette a parlare con tre avventori di mezza età.  Dice loro che si è divertita con le amiche e ha riso molto la sera prima. Io non parlo con lei per conquistarla: è molto più giovane di me e io non ho più gli ormoni a mille; piuttosto parlo con lei perché mi sento a mio agio. Ma mi va bene anche sentire una conversazione altrui in sottofondo: anche questo è un modo per sentirmi meno solo. Probabilmente a lei non interessa niente di me, forse è così quasi sicuramente, ma ormai per lei conversare con i clienti è una abitudine, una prassi consolidata. Forse è una deformazione professionale, forse anche un modo per sapere i fatti altrui. Ma ha una funzione sociale definita la barista perché oggi ci sono tre avventori tra i 55 anni e i 65 anni molto probabilmente soli, senza compagne e senza più genitori, che durante le feste sentono ancora di più la solitudine, sentono la morsa della solitudine che stringe l'animo e lei sta conversando amabilmente,  li sta intrattenendo, mentre loro bevono una birra o qualcosa di alcolico, seduti ai tavolini. Io ho preso il caffè. Lei fa del bene. Rompe la solitudine delle persone. Picchetto un poco un dito sul bancone. Resto perplesso sul da farsi. Pago il conto. Dico che vado. Auguro buona serata. In fondo sono fortunato. Ho la mia famiglia a casa che mi aspetta. Al ritorno mi imbatto in un ubriaco che parla a voce alta e traballa, barcolla, poi continua imperterrito ondulato un poco. Lui è meno fortunato di me. Probabilmente è più solo. Ritorno a casa e i parenti non sono ancora arrivati. Ma noi li aspetteremo come aspetteremo Godot fino alla fine della serata. 

  • Perché vado sempre al solito bar?

    Sono in macchina con mio padre. Andiamo piano con la sua utilitaria datata. La vorrebbe cambiare, ma le concessionarie fanno attendere troppo e poi finché la macchina va lasciala andare! Per ora ha dato davvero pochi problemi. Abbiamo sempre speso poco per la manutenzione. Le strade sono quasi  deserte oggi che è Pasqua. I cretini sono sempre in giro. Anche stamani c'è chi va di fretta. Ma... Altro...

    Sono in macchina con mio padre. Andiamo piano con la sua utilitaria datata. La vorrebbe cambiare, ma le concessionarie fanno attendere troppo e poi finché la macchina va lasciala andare! Per ora ha dato davvero pochi problemi. Abbiamo sempre speso poco per la manutenzione. Le strade sono quasi  deserte oggi che è Pasqua. I cretini sono sempre in giro. Anche stamani c'è chi va di fretta. Ma dove corre? Sono le 8 di mattina ed è festa. Quali impegni improrogabili ha? Posso capire oggi solo se è un chirurgo chiamato per un'urgenza.  C'è uno con il Suv che sorpassa in linea continua su un dosso. Mio padre sfanala e protesta. Gli dico sempre di non inveire, di non fare gestacci perché in giro ci sono troppi delinquenti pronti a menare le mani e a dare in escandescenze. Poi se ci scappa il morto accade che si prendono una piccola pena per omicidio preterentenzionale, subito dopo sono fuori dalle patrie galere e trovano subito qualche cooperativa pronta a dare loro lavoro. Così vanno le cose. Capisco il recupero dei tossicodipendenti e degli ex carcerati, ma il lavoro agli altri? Dimenticavo che qui bisogna mettere la testa a partito e qui in Toscana so bene di quale partito. Io comunque continuo a essere per il partito del non voto e me ne frego. Ma è inutile lamentarsi. L'andazzo è questo, anche perché se fai un minimo di critica qui ti zittiscono tracotanti che qui si è sempre fatto così, che qui comandano loro, che da altre parti fanno peggio e che se non ti vanno bene come stanno le cose qui allora devi andare a vivere da un'altra parte. Cerchiamo una pasticceria a San Sisto, vicino a Riglione, perché mio padre vuole comprare una schiacciata di Pasqua. Prima ci fermiamo a metà strada in un bar. Mi fanno un cappuccino con troppa schiuma e poco latte. Molto probabilmente il barista è andato in tilt perché oggi ha troppi clienti da servire. Mio padre esce dal bar e commenta che nessuno comprerà quelle colombe ben in vista al modico prezzo di 34 euro sia perché c'è la crisi sia perché si trovano prodotti buoni anche nei supermercati. Rimugino tra me e me. Penso un poco. Sono un flâneur di provincia (di solito da Baudelaire in poi, passando per Benjamin e finendo per Maurizio Cucchi si intende di metropoli), anzi a onor del vero sono un  flâneur di quartiere. Vado a zonzo nel mio rione in mancanza di meglio, ovvero di un'occupazione. Ieri pomeriggio sono andato al bar solito. Sono ormai un cliente abituale. Avevo saputo che cercavano un/una barista. Ho chiesto informazioni a riguardo, ho saputo che vogliono persone con un minimo di esperienza e io non ho la benché minima esperienza come barista, anche se ho lavorato per alcuni anni come commerciante. Ho anche io le mie esperienze ma in altri settori. Niente di che. Niente di fatto. Anzi l'unico fatto assodato è che, come si dice in Toscana, sono nel dolore per quanto riguarda il lavoro. Alla mia età ormai sono tagliato fuori da tutto e da tutti. E non ho nessuno che mi raccomanda!  Ma cambio argomento. Sono stato nella mia giovinezza un poco viveur  e ora sono blasè, sono indifferente e quasi sazio di mondanità.  Addirittura oggi rifuggo i luoghi, i locali troppo affollati. Non mi piace la ressa, la calca. Non mi piace nemmeno l'affollamento. Quel bar che frequento abitualmente è il locale che mi si addice di più. C'è sempre qualcuno ma non è mai troppo pieno. Sono anche déraciné, non perché sia andato a vivere all'estero, non perché mi senta uno straniero in patria, ma perché sento che l'Italia è un Paese senza redini, senza capo né coda, ormai in preda ai banditi. Sono spaesato, smarrito prima di tutto a livello esistenziale. Non appartengo a niente, a nessuna comunità.  Non appartengo nemmeno a me stesso. Sono estraneo anche a me stesso. Ma tutto questo non è un dramma né una tragedia; è solo un mancato senso di appartenenza,  che non genera in me crisi esistenziali né crisi di identità. Sono troppo vecchio per entrare in crisi, salvo casi eccezionali.  Ho i miei genitori e mia sorella. Ho un mio amico con cui mi sento spesso per telefono. Mio padre mi chiede dove tira il vento. Rimaniamo così un attimo interdetti a osservare gli alberi. Poi gli dico di guardare la strada e di non distrarsi troppo mentre guida. Abbiamo trovato la pasticceria. Ha comprato la schiacciata. Oggi è Pasqua, verranno a trovarci i parenti che vediamo solo per le festività. Io non vedo l'ora di pranzare e poi prendere il solito caffè al bar. Diciamo che come barista non ho la minima esperienza ma come avventore mi conoscono e poi quel bar è l'unico della zona che è aperto tutti i giorni dalle 7 a mezzanotte. Io lo frequento il giorno. È un modo per fare una camminata, osservare e guardare attorno. Gli altri bar, quelli dell'ospedale, sono frequentati da gente di passaggio, da infermieri, impiegati, medici, dirigenti amministrativi. Nel bar che frequento io c'è l'umanità più varia; lo frequentano persone di tutte le età e di tutte le nazionalità. È un angolo di mondo in questo quartiere. Diciamocelo in tutta onestà: gli altri bar sono più da fighetti, vogliono essere per la gente bene e rispettabile. In molti   bar della cittadina  se ti fai una birra seduto ai tavolini non sei visto bene, anzi ti considerano male perché rovini la reputazione del locale. Allora molti sarebbero più coerenti se mettessero un'insegnante con la scritta: "non si somministra alcolici". Al bar dove vado io se ti fai una birra nessuno ti guarda in cagnesco, ma se uno va troppo su di giri allora la barista lo ferma e non gli dà più da bere: magari quando è ubriaco la manderà al diavolo ma da sobrio, una volta ritornato in sé, la ringrazierà in cuor suo. Il bar dove vado è anche il bar più economico del quartiere. È anche il bar dove c'è maggiore convivialità perché lì una barista parla volentieri con tutti i tipi di clienti, anche quelli occasionali o che vengono di rado. A volte mi ci metto a fare due chiacchiere anche io. Ho bisogno di tanto in tanto di sentirmi chiedere "come va?" dalla barista tra prendermi il caffè e pagare il conto e mi accorgo che non è convenienza sociale o una formula di cortesia stereotipata:  semplicemente sanno trattare i clienti con umanità. 

  • Due parole soltanto su darwinismo sociale e biopolitica…

    Il fatto che in ospedale i pazienti con più di 80 anni col Covid non vengano più intubati  ma lasciati al loro destino è la dimostrazione scientifica del darwinismo sociale in atto nei paesi occidentali. In fondo più anziani morti significano meno pensioni e meno pensioni significano meno debito pubblico. Boris Johnson e Bolsonaro con le loro dichiarazioni di intenti e i loro comportament... Altro...

    Il fatto che in ospedale i pazienti con più di 80 anni col Covid non vengano più intubati  ma lasciati al loro destino è la dimostrazione scientifica del darwinismo sociale in atto nei paesi occidentali. In fondo più anziani morti significano meno pensioni e meno pensioni significano meno debito pubblico. Boris Johnson e Bolsonaro con le loro dichiarazioni di intenti e i loro comportamenti conseguenti hanno dato prova che il darwinismo sociale grazie al Covid ha fatto più morti del razzismo. Certo non ci sono statistiche a riguardo. In tempi passati il razzismo ha scatenato schiavitù e colonialismo. Ma in questi ultimi due anni quante centinaia di migliaia di anziani sono morti di Covid a causa delle politiche scellerate di alcuni capi di Stato!?? Sono stati lasciati morire solo i più anziani. Non erano più produttivi. Era troppo costoso curarli bene. Le spese erano troppo onerose. Questi anziani col Covid per lo Stato erano solo un costo sociale. Il darwinismo sociale in questi ultimi tempi  ha avuto nettamente la meglio sulla biopolitica di Foucault, secondo cui ogni Stato moderno cerca di far vivere più a lungo possibile ogni suo cittadino. Per Foucault per ogni Stato era un dovere far vivere a lungo ogni cittadino e per ogni cittadino era un diritto/dovere campare più a lungo possibile. Anche la biopolitica può avere i suoi limiti e le sue pecche perché i cittadini in base a essa dovrebbero essere redarguiti o addirittura puniti per uno stile di vita non corretto,  Qualcuno ha pensato di far pagare i costi di ospedalizzazione a ogni non vaccinato, ma così facendo si creerebbe un pericolosissimo precedente: allora si dovrebbe far pagare il fio a ogni guidatore che aveva torto in un incidente, ogni fumatore, ogni alcolizzato, ogni drogato, ogni obeso e così via (la lista dei comportamenti a rischio potrebbe essere infinita). Un difetto della biopolitica è che deve essere rispettata ogni volontà,  anche quella di autodistruggersi.  Io non penso che il darwinismo sociale abbia vinto definitivamente sulla biopolitica. È stato solo un predominio in questo breve lasso di tempo. I finanziamenti spingono la ricerca scientifica verso un prolungamento della vita. Ci sono i fondi pensioni e c'è tutto un business sugli anziani e la loro cura. Molti giovani campano grazie alle pensioni dei genitori. Le ricadute positive su un prolungamento della vita sono molte. Ma ci sono anche giovani che pensano che tra qualche decennio non avranno la pensione. Darwinismo sociale e biopolitica insomma sono due forze contrapposte. C'è una lotta incessante da tempo. Da un lato tutti i cittadini dovrebbero essere uguali per la medicina senza distinzioni, neanche di età.  Dall'altro gli anziani la loro vita l'hanno vissuta, i giovani sono il futuro della nazione e quindi largo ai giovani! In parole molto povere così si potrebbero riassumere questi due concetti inversi e opposti. Quando tutto va bene la biopolitica ha la meglio, ma il darwinismo sociale viene sempre ripescato e applicato per le emergenze, per le situazioni limite. Però di fronte alla sovrappopolazione, una delle possibili cause dell'Apocalissi,  il darwinismo sociale potrebbe avere definitivamente la meglio. Una volta ho visto un film comico e allo stesso tempo di fantasia, in cui veniva rappresentata una distopia in chiave demenziale: i cretini facevano sempre più figli e i più intelligenti non li facevano. L'umanità perciò  degenerava e veniva mandato un uomo medio nel futuro grazie alla macchina del tempo  a cercare di salvarla. Il film si intitolava Idiocrazy, il modo con cui veniva valutata la stupidità o meno era il q.i, che è una misurazione grossolana e perfettibile dell'intelligenza umana, ma il titolo del film era tutto un programma e la visione fu divertente. Il film mi risultò agrodolce, mi fece un poco riflettere. La realtà è che ogni governo è in sospeso tra darwinismo e biopolitica. La verità è un'altra: in queste righe ho estremizzato, pensato in modo un poco binario, ho filosofeggiato alla buona  perché darwinismo sociale e biopolitica sono un intreccio indissolubile e inestricabile. Però un fondo di verità c'era in questa dicotomia, in questa distinzione grossolana. Originariamente comunque la biopolitica tramite riproduzione, cura, igiene, profilassi tende a conservare il genere umano, ma questa sovranità dello Stato sul cittadino presenta sempre anche un risvolto tanatopolitico. 

  • Su piccole certezze, subito dopo smentite…

    Forse quel che resta oggi della maturità sono degli ossi seppia sulla spiaggia, tanto per citare Montale. Forse quel che resta oggi a me è solo aridità e niente altro.  I miei pensieri, le mie ideuzze sono solo residui, scarti di lavorazione di quel che rimane della mia materia grigia. Succede che qui nel mio cuore e nella mia testa molto è rivedibile.  Uno un giorno pensa di essere ... Altro...

    Forse quel che resta oggi della maturità sono degli ossi seppia sulla spiaggia, tanto per citare Montale. Forse quel che resta oggi a me è solo aridità e niente altro.  I miei pensieri, le mie ideuzze sono solo residui, scarti di lavorazione di quel che rimane della mia materia grigia. Succede che qui nel mio cuore e nella mia testa molto è rivedibile.  Uno un giorno pensa di essere approdato a una piccola certezza, a una piccola verità, magari a una certezza, a una verità tascabile. Se la tiene stretta, la coltiva, pensa di aver fatto chissà quale scoperta, magari pensa di accrescere o di poterla fare fruttare.  Poi il giorno dopo giunge la smentita: è la vita stessa che ci smentisce. I genitori invecchiano. Il lavoro manca. Il precariato è onnicomprensivo; è anche esistenziale. Accade che non sono più capace di innamorarmi. Accade che non provo più meraviglia, non mi stupisco più di niente. Non mi piacciono le novità e poi quando si verificano di solito sono negative. Accade che ultimamente tra amici ci ritroviamo quasi sempre a dei funerali; non abbiamo mai il modo né il tempo di ritrovarci, talvolta neanche la voglia. Succede che siamo sempre più abituati a mentire a noi stessi.  È quasi un'abitudine per stare meglio. Succede che ci affezioniamo e ci aggrappiamo con tutte le nostre forze all'unico corrimano che abbiamo, ovvero le nostre piccole certezze. Succede che l'unico album di ricordi delle mie amicizie è solo nella mia memoria.  Forse arrivati a una certa età, dopo una grande moria di sogni, bisogna ancora conservare imperterriti la capacità di sognare, come i Dik Dik che hanno sempre sognato la California e non ci sono mai stati o come la Mannoia che ha sognato il cielo d'Irlanda e non è mai stata in Irlanda. Succede così che nella vita aveva ragione Nietzsche quando in "Aurora" scriveva che quelli che danzavano vennero considerati folli da coloro che non sentivano la musica. Bisogna, a costo di apparire folli, cercare di andare oltre, di trascendersi, di non fermarsi mai, di superarsi sempre. Ma anche se la vita mette a dura prova le persone più resistenti è la morte il verdetto finale, anche se per Ungaretti in una sua celebre poesia "la morte si sconta vivendo", riprendendo il tema leopardiano della morte come liberazione dal dolore e dagli affanni. Quasi ogni sera mi siedo in giardino a guardare il tramonto. Guardo le pale eoliche, la linea dell'orizzonte. Guardo le venature violacee che sembrano dei piccoli sfregi al cielo sgombro di nuvole. Mi accontento della routine.  In fondo sto bene di salute, anche se bisogna sempre ricordarsi di una frase nelle prime pagine de "La montagna incantata", che è grossomodo così: "il paziente dice come si sente, ma è il medico a dire come sta". Diciamo che per ora non si sono presentati sintomi né avvisaglie di nessuna malattia. Ho una salute di ferro. Non ho mai la febbre. Non mi ammalo mai, nemmeno quando tutti gli altri prendono l'influenza. Inutile stare a chiedersi se ho voluto rimanere solo o se mi hanno lasciato solo. Forse entrambe le cose. Forse c'è stata una concomitanza di cause. Recriminare non serve a niente. Mi arrivano libri di poesia da recensire oppure perché io scriva una nota critica. Lo faccio unicamente per passione. Sono recensioni e note critiche particolari. Io trasgredisco le regole che si sono dati i grandi recensori. Ma la cosa più importante è che in quelle voci poetiche a tratti percepisco della solitudine. Forse scrivere significa rendere partecipe gli altri della propria solitudine. Alcuni potrebbero dire: ti sbagli, molti vogliono comunicare il loro trauma. Ma io non forzerei troppo la mano a rispondere che un trauma è non solo un punto di rottura ma un momento per antonomasia in cui ci si ritrova soli e nessuno ci aiuta. Cantava Venditti in una canzone molto intimista nei primi anni '70: "Le cose della vita fanno piangere i poeti, ma se non le fermi subito diventano segreti". L'ascoltavo quando avevo 16 anni e non capivo a pieno la portata e il significato reale di questa canzone. La trovavo un poco oscura, un poco criptica. Mi ricordo ancora un filmato d'epoca della RAI: Venditti tutto impegnato che suona il  piano con capelli e barba lunghe. Più tardi avrei capito che con quella canzone che parlava di amore, incomprensione e solitudine Venditti sfidava la sua generazione, che voleva che a quei tempi si trattasse unicamente di politica. Anche il privato era politico allora. Poi Venditti ha scelto più tardi la strada del nazionalpopolare,  della semplificazione a tutti i costi, del voler essere commerciale, ma forse sentiva nel suo intimo in questo modo di andare incontro alle persone. Oggi mi sembra di capirla molto di più quella canzone. Mi sembra che sia un abito che mi sia stato cucito addosso.  Mi sembra che sia una delle canzoni per il testo e per l'atmosfera creata che più rappresentano la mia vita, anche se Venditti si rivolgeva a una donna amata e io invece sono solo. Molti anni fa sempre Venditti scriveva in un'altra sua canzone: "La solitudine è una strana compagna/ Lei ti sorride come una puttana/ E poi ti lascia senza il fiato per poter gridare". In questi versi esprime in modo significativo e poetico pro e contro della solitudine, illusione e delusione dell'essere soli. Venditti allude al rapporto impersonale per eccellenza, quello con una prostituta, che può togliere le voglie, essere un modo estremo per rompere la solitudine, ma è anche una "pubblica moglie" che fa sesso frettolosamente con tutti: tutto ciò è testimoniato dal fatto che le prostitute fanno sesso ma preservano una parte della loro intimità,  non baciando in bocca neanche i clienti più incoscienti e più focosi. Ma in fondo cosa importa della solitudine e dell'amore? Un tempo scrivevo poesie rivolgendomi a una figura femminile che non esisteva in quel presente. Il mio era un tu imprecisato. Ma a chi importa? Morirò e a nessuno importerà niente delle mie parole scritte. Le ragazze e le donne di cui mi sono innamorato moriranno e ai posteri non interesserà in alcun modo la loro bellezza o il loro fascino. Ci sono dei  versi bellissimi e terribili di Alda Merini della sua poesia "Per Milano": "Milano dagli irti colli/ che ha veduto qui/ crescere il mio amore/ che ora è defunto". Per citare Zanzotto, capovolgendolo, non siamo fatti per "durare tra le albe" perché forse non c'è niente che "farà verità della nostra menzogna". 

  • Sulla mia vita e sulla mia solitudine…

    Nell'infanzia, nell'adolescenza e nella giovinezza sono stato raramente solo. La solitudine per me era una condizione innaturale. Frequentavo dapprima il cosiddetto gruppo dei pari, i compagni di scuola, gli amici del quartiere,  i compagni della squadra di calcio del rione, e poi più grande le comitive. Ci sono stati periodi della mia giovinezza in cui mi sono dimostrato estroverso. Già da... Altro...

    Nell'infanzia, nell'adolescenza e nella giovinezza sono stato raramente solo. La solitudine per me era una condizione innaturale. Frequentavo dapprima il cosiddetto gruppo dei pari, i compagni di scuola, gli amici del quartiere,  i compagni della squadra di calcio del rione, e poi più grande le comitive. Ci sono stati periodi della mia giovinezza in cui mi sono dimostrato estroverso. Già da bambino ero un poco timido, ma tutto sommato socievole, anche se non proprio espansivo.  Avevo bisogno di stare in mezzo agli amici; cercavo una ragazza giusta che non ho mai trovato. Un anno ho frequentato il movimento umanista. Volevamo umanizzare il mondo. Forse non avevamo già messo in conto che Firenze, dopo secoli di storia e di cultura, era già umanizzata.  Eravamo giovanissimi. Io ero appena maggiorenne. Mi ricordo un ultimo dell'anno tanto atteso e caricato di aspettative, che si rivelò una delusione. Per due mesi avevo distribuito volantini nel centro storico per la festa di San Silvestro che avevamo preparato in una discoteca. Pensavo di conquistare una ragazza, ma non combinai niente. Anzi una ragazza di Milano che avevo conosciuto e che avevo accompagnato alla festa si mise a limonare con un altro. Diventai teso, nervoso. Ero molto deluso. Mi misi in un angolo in disparte. Un ragazzo mi urtò. Ci fu un battibecco. Stavo per sferrare un pugno, ma mi fermai all'ultimo. Mai stato assolutamente un picchiatore, ma covavo nell'animo una delusione sentimentale ed ero giovanissimo, non avevo ancora imparato a trattenermi, a regolarmi. Quel mio gesto violento, non eseguito, ma accennato, trattenuto fu malvisto dal resto del gruppo umanista che predicava la non violenza. In realtà in quegli anni i ragazzi toscani erano molto rissosi e violenti;  ogni scusa, secondo la mentalità comune, era buona per menare le mani, ma in quel gruppo erano tutti apparentemente pacifisti. Insomma qualcuno ironicamente potrebbe affermare "cherchez la femme". Finita l'esperienza col movimento umanista, in Veneto mi ritrovai in diverse comitive. Prima di tutto a Padova con i compagni di facoltà,  i coinquilini, i compagni dell'occupazione e del movimento studentesco. Padova era un mondo abbastanza chiuso, ma la facoltà di psicologia era un mondo a sé stante. Padova era leghista, mentre la mia facoltà era una roccaforte ideologica della sinistra.  Talvolta le lezioni universitarie venivano interrotte per due minuti da un autonomo che proponeva un'attività culturale agli studenti. C'erano cortei e qualcuno che parlava col megafono. Insomma si respirava in quegli anni ancora un clima politico. Per la maggioranza l'università era già un esamificio e la politica universitaria era solo distrazione, perdita di tempo, divertimento; per queste persone l'occupazione era solo un modo per stordirsi e divertirsi. Ma c'erano anche  alcuni che credevano  davvero di cambiare le cose. Fu allora, nelle assemblee del movimento, davanti a duecento, trecento studenti che scoprii che soffrivo di un leggero timor panico a parlare in pubblico, ero un poco impacciato. Di fronte a un pubblico inferiore a cento persone posso parlare senza problemi ma non l'ho più fatto perché non c'è mai stata una ragione valida, ancora di più: non c'è mai stata necessità. Devo dire però che sia i contatti umani e le relazioni sociali del movimento umanista che quelle del movimento studentesco mi aiutarono non certo a sbloccarmi totalmente ma a superare alcuni miei blocchi emotivi/comunicativi. Io ero innamorato di una studentessa di psicologia ventenne, che non ne voleva sapere di me né di nessun altro. Mi ricordo che poco prima delle vacanze di Natale mi disse, mentendomi, che si sarebbe messa con me. Mi ricordo che durante quelle vacanze, trascorse con una febbre a quarantuno che non mi passava, fui veramente felice. Ma quando la rividi scoprii che mi aveva solo illuso. Voleva essere lasciata libera. Si divertiva a farci innamorare e  poi a deluderci in un piccolo gioco sadico/narcisista. Aveva avventure ma per lo più con giovani immigrati che ospitava a casa di nascosto. La libertà sessuale è senza ombra di dubbio un diritto inalienabile dell'Occidente: lei aveva senz'altro la libertà di andare a letto con chi voleva (e nessuno gliela negava), ma non aveva il diritto di illuderci e poi di negarsi, di essere in confidenza totale con noi e poi di prenderci in giro. Insomma i miei vent'anni furono croce e delizia, avventure con ragazze che non amavo e una cocente delusione sentimentale, protesta politica e amicizia,  birre e libri, le prime ubriacature,  le prime sigarette fumate rabbiosamente in modo accanito. Per gran parte della mia gioventù la sigaretta è stata una dolce compagna, un'amica che sapeva trattenermi dalle intemperanze e che allontanava l'ansia. Oppure tutto questo allora era solo una mia impressione. Comunque è da dieci anni che ho smesso di fumare. L'anno nella bassa padana a lavorare in un collegio avevo molte amicizie e molte conoscenze. Molti eravamo accomunati dal fatto di avere un nemico comune, ovvero il direttore del collegio. In quegli anni ho conosciuto persone di ogni risma, di ogni tipo. Forse di quegli incontri ne ho fatto tesoro anche negli anni successivi. Ho poi avuto un negozio per alcuni anni a Pontedera. Quel negozio era l'osservatorio privilegiato di un microcosmo angusto. C'erano due realtà umane in cui mi sono imbattuto: i clienti locali che compravano abbigliamento e coppiette o single benestanti, provenienti da tutta Italia,  che venivano a comprare mobili di qualità.  Poi ho conosciuto ma solo superficialmente alcuni commercianti pontederesi. Più che altro conobbi sporadicamente alcuni baristi. Dopo mi sono ritirato socialmente, pur non essendo schizofrenico. È stata una scelta sociale e umana ben ponderata e calcolata. A stare da me evito negatività e spendo meno. Frequento da anni un solo amico. Ho i miei contatti virtuali. Ho i miei familiari, Internet, i miei libri. Ho le mie passioni da coltivare. La mia vita raramente è vuota e insensata. Ci sono naturalmente momenti di crisi. Vado allora a fare un giro in centro o per il quartiere. Vado al bar per dieci minuti. Non ho più bisogno di una ragazza che mi procuri l'orgasmo. Adesso mi basta bere una Cocacola al bar e sentire qualche avventore che parla in sottofondo. Oppure vado al ristorante con mio padre o col mio amico. Ogni stagione ha i suoi limiti e le sue conquiste interiori. Non posso vivere come un ventenne o un trentenne. Non mi va di correre dietro a una ventenne o una trentenne per convincermi di essere ancora giovanile. Mi accontento delle quattro avventure e disavventure vissute in gioventù e mi faccio bastare il loro ricordo stantio, sbiadito. Sono solo o no? Qui a Pontedera sono solitario e isolato allo stesso tempo. Ma potrei prendere un treno, andare in una città e fare subito amicizie. La mia solitudine per motivi che non sto a elencare è circoscritta qui a Pontedera. La sopporto perché tutto sommato è tollerabile. Non è mai troppo feroce. Qui a Pontedera sono chiuso nella mia storia. Forse se chiedessi una mano troverei solo pugni chiusi. Ma non sono ancora in una condizione disperata. Dopo anni di overdose di amicizie e contatti sociali ho imparato a stare da me. So stare meglio con me perché non mi vedo più come un nemico né vedo parti di me come nemiche. Un tempo la solitudine la evitavo, oggi talvolta la cerco.  Sento di potermi sopportare. Sento di accettarmi di più. Perché allora aggirare, eludere me stesso come prima? Sento di poter affrontare i lati peggiori di me stesso. Non mi concilierò mai col mondo, non lo accetterò mai totalmente,  ma mi sono un poco riappacificato con me stesso ed è già qualcosa. 

  • Sull'autofiction e altre menate…

    Leggevo di recente un articolo del poeta e scrittore Roberto Pazzi in cui si lamentava del fatto che oggi vada per la maggiore l'autofiction (Saviano, Giuseppe Genna, Walter Siti, Teresa Ciabatti, etc) e sia troppo diffuso il "microautobiografismo". Secondo questa scuola di pensiero troppi autori sono egoriferiti, sono troppo coinvolti emotivamente, non riescono a mettere a distanza le loro cose d... Altro...
    Leggevo di recente un articolo del poeta e scrittore Roberto Pazzi in cui si lamentava del fatto che oggi vada per la maggiore l'autofiction (Saviano, Giuseppe Genna, Walter Siti, Teresa Ciabatti, etc) e sia troppo diffuso il "microautobiografismo". Secondo questa scuola di pensiero troppi autori sono egoriferiti, sono troppo coinvolti emotivamente, non riescono a mettere a distanza le loro cose della vita, non riescono a utilizzare un sufficiente distacco (forse semplifico, ma in realtà certe ragioni vengono sottintese e mai esplicitate). A tale riguardo scrivevo in tempi non sospetti, ovvero 30 anni fa, che la vita è un'immagine che si può mettere a fuoco solo quando si è distanti. Ma secondo un'altra scuola di pensiero "Madame Bovary c'est moi", così come è sempre valido il detto veneto "pittore parla dei quadri", ovvero noi stessi siamo la materia che conosciamo meglio (questo secondo molti. Alcuni come il poeta Vittorio Orlando affermano che l'unico progresso è quello interiore). Secondo questa seconda scuola di pensiero perché dovremmo inventare eventi o personaggi quando possiamo prendere a piene mani dalle nostre vite? In fondo mi chiedo io chi ha detto che per passare dal particolare all'universale bisogna per forza trasfigurare e creare? Perché non attingere totalmente o quasi dalle nostre vite? Perché non trattare di noi invece di creare mondi fittizi? Aggiungo anche che le neuroscienze hanno dimostrato, grazie all'utilizzo della risonanza magnetica funzionale, che la mente umana attiva undici aree cerebrali ogni volta che immagina, ma è anche vero che immaginare non è creare ex novo o creare ex nihil. L'immaginazione umana manipola e combina vecchie immagini. Che poi le immagini mentali ci suggestionino e influenzino direttamente la nostra vita è vero, ma è altrettanto vero che anche l'artista con più immaginazione inizia sempre dal materiale preesistente della sua vita. L'autofiction è perfettamente in linea con tutto ciò.  E allora perché deve essere visto male parlare di sé? Perché uno scrittore deve parlare d'altro per poi finire immancabilmente di parlare di sé stesso? Perché fingere totalmente ? Perché parlare d'altro!? Perché fare un gioco di sponda? Perché traslare? Perché non affrontare subito e in tutta onestà ciò che ci sta più a cuore o forse ciò che ci riguarda di più, ovvero noi stessi? Chi ha detto poi che dei fatti biografici non possano creare empatia e rispecchiamento? Forse l'autofiction è il punto d'incontro ottimale tra realtà e finzione. Certo parlare di sé significa avere più remore, significa autocensurarsi, avere più inibizioni, andare incontro a disapprovazione sociale, ma è altrettanto vero che scrivere significa mettersi a nudo. Poi ci potrebbero essere delle grane legali a parlare troppo della propria vita. Se uno scrive di fantasia ogni riferimento è puramente casuale. Se il libro è autobiografico ogni riferimento può essere causale e possono perciò fioccare le querele. Forse anche in questo caso l'autofiction è la strada migliore. Inoltre oggi i libri subiscono un editing molto forte in nome del politicamente corretto: questo forse vuol dire che in fondo è più ammissibile per il pubblico una storia inventata con alcune venature maschiliste per esempio che un romanzo autobiografico, dato che nel primo caso uno si può sempre difendere dicendo che punto di vista dell'autore e quello della voce narrante non necessariamente coincidono. Se un lettore moralista vuol pensare male lo farà anche di fronte a una storia erotica inventata di sana pianta, sostenendo che certe cose per scriverle così bene bisogna averle provate. Certo c'è anche chi ce l'ha con l'autofiction perché troppo confessionale, troppo intima. Sarebbe prima di tutto una questione di pudore, di discrezione per taluni, fino a sentenziare che i fatti propri di questo o quell'autore non interessano a nessuno. Ma allo stesso tempo non tutta la fantascienza, non tutto il fantasy o non tutto il realismo magico interessano ai più! Un altro motivo per cui si può criticare l'autofiction è la parte saggistica in ogni suo romanzo oppure quella metaletteraria. C'è anche chi dice che con l'autofiction non hanno inventato niente perché essa esisteva da secoli. C'è infine chi non critica totalmente il genere, ma pensa che l'autofiction dovrebbe essere scritta meglio. Insomma come al solito in molti si azzuffano e i libri non si vendono. In tutta onestà non tutti i dettami della critica devono per forza corrispondere al vero, così come non sempre il successo di un genere decretato dal pubblico deve per forza essere garanzia certificata di chissà quale qualità. Che poi sia che un autore si rivolga all'interno o all'esterno ci sarà pur sempre una concavità o una convessità, una introflessione o una estroflessione: insomma la lente sarà sempre deformante, ci saranno perciò sempre delle deformazioni nell'opera. Che cosa c'è davvero di oggettivo nell'arte e nel mondo interiore? Quando uno studente chiese al grande matematico  Caccioppoli quale fosse la legge più vera in assoluto, ebbene lui rispose: "Al cuore non si comanda". Un altro grande matematico, Galois, fu la dimostrazione che "al cuore non si comanda": fece un duello per difendere la donna che amava e sempre per amore, questa volta della sua disciplina, rivide e corresse tutti i suoi appunti la notte prima del duello in cui morì. In definitiva mi sembra che queste due scuole di pensiero (pro autofiction o contro) ripropongano in piccola parte l'antica disputa realismo/idealismo. Ritengo che la scelta artistica di trattare di sé o di altri può maturare in base all'introversione/estroversione dell'autore e quindi dalla sua personalità di base. C'è sempre un orientamento verso l'io o il mondo, una predilezione accentuata. Nessuno riesce a stare a metà strada tra queste due polarità. Forse non è una caratteristica umana riuscire a trovare l'equilibrio e anche l'armonia tra le due cose. Io e mondo sono mutuamente esclusivi. Ci sono autori che hanno un atteggiamento quasi schizoide sulla polarità da scegliere. Kafka scrisse: "Non esiste altro mondo fuorché il mondo spirituale. Quello che noi chiamiamo mondo sensibile è il Male del mondo spirituale". Sempre Kafka in "Quaderni in ottavo" scriveva: "Quanto misera è la conoscenza che ho di me stesso, paragonata – poniamo – a quella che ho della mia stanza. Perché? Non esiste un’osservazione del mondo interiore, come ne esiste una del mondo esterno. La psicologia descrittiva è in complesso un antropomorfismo, un modo di intaccare i limiti. Il mondo interiore si può solo vivere, non descrivere. – La psicologia è la descrizione del rispecchiarsi del mondo terreno sulla superficie celeste, o meglio: la descrizione di un rispecchiamento, come ce lo immaginiamo noi, creature impregnate di terra, perché in realtà non c’è alcun rispecchiamento, siamo solo noi che vediamo terra dovunque ci volgiamo". È difficile trovare l'equilibrio interiore, ma altrettanto è difficile trovare quello artistico. È difficile scegliere dove volgersi, se verso lo scavo di sé o verso l'estensione nel mondo. A ogni modo non bisogna scegliere in base alle mode del momento, ma in base a ciò che sentiamo noi stessi dentro. Ben sapendo che qualsiasi cosa scegliamo ci sarà qualcuno che ce lo rinfaccerà. Comunque sia, come ha detto Walter Siti: "“Lo stile non si preoccupa del like”.
  • Pensieri al bar durante una birra…

    Il rischio è che il pensiero della fine, della mia fine diventi la fine del mio pensiero. Ma c'è un pericolo molto più grave che incombe sulle nostre teste, ovvero che il pensiero della fine della nostra civiltà si tramuti nella fine del pensiero della nostra civiltà.  Non è purtroppo un semplice gioco di parole. Non è un bisticcio di parole. Sto ragionando su queste cose mentre mi sto... Altro...

    Il rischio è che il pensiero della fine, della mia fine diventi la fine del mio pensiero. Ma c'è un pericolo molto più grave che incombe sulle nostre teste, ovvero che il pensiero della fine della nostra civiltà si tramuti nella fine del pensiero della nostra civiltà.  Non è purtroppo un semplice gioco di parole. Non è un bisticcio di parole. Sto ragionando su queste cose mentre mi sto bevendo una birra. La ragazza del bar mi ha chiesto se ho appena staccato dal lavoro e io le ho risposto che sono disoccupato.  Poi mi sono seduto e ho iniziato a pensare. Mi basta una birra. Mi serve a evadere dai soliti schemi mentali. Mi sono messo in un angolo in disparte. La prima cosa che penso è che aveva ragione Voltaire quando nel Candido scriveva che il lavoro tiene lontani gli uomini da tre mali, ovvero "la noia, il vizio, il bisogno". Poi la barista parla con un tipo. In parte ascolto la loro conversazione, in parte penso. Può darsi che la mia fine e quella della nostra civiltà siano imminenti (molto probabilmente è certa non solo la mia fine ma anche quella della nostra civiltà), però non bisogna abbattersi, non bisogna abbandonare la nostra ragione perché è quel poco che abbiamo,  che ci dobbiamo tenere stretti.  Infatti si può accedere alle filosofie irrazionaliste solo con la nostra razionalità; il razionalismo diventa perciò strumento e premessa indispensabile dell'irrazionalismo. In fondo siamo nella maggioranza dei casi razionalisti e anche coloro che abbracciano filosofie irrazionaliste per capirle devono utilizzare molto la ragione per capirle. A onor del vero qualsiasi uomo di cultura è una mistura, un gran calderone di razionalità e irrazionalismo. In definitiva la premessa di alcune forme di irrazionalismo è che la ragione, la metafisica, la scienza non siano sufficienti per comprendere la realtà,  fino a giungere all'irrazionalismo più radicale, ovvero che tutto sia governato dal caso e che la realtà,  la stessa vita non abbiano un senso. Non mi spaventa il discrimine filosofia razionalista/filosofia irrazionalista perché qualsiasi filosofia non può collocarsi fuori dalla ragione. Le filosofie irrazionaliste postulano con gli strumenti della ragione l'irrazionalismo. In fondo Nietzsche e compari denunciano il nichilismo della nostra civiltà.  Mi spaventa invece  la mancanza di razionalità che sta dietro la totale ignoranza umanistica. Mi spaventa l'irrazionalismo che vorrebbe mettere da parte ogni cultura umanistica, finendo così per metterla definitivamente in crisi: è un irrazionalismo ben presente nella razionalità scientista ed è molto più insidioso di quello dei filosofi irrazionalisti. Infatti le filosofie irrazionaliste per fare danni dovrebbero veramente avere presa nella popolazione ma perché ciò accadesse dovrebbero essere conosciute a fondo da gran parte della popolazione: la cosa invece non accade perché esse non sono popolari, influenzano e autoesaltano una sparuta minoranza di persone. Ma mi rendo conto che anche Heidegger in buona parte la pensava così, che razionalismo e irrazionalismo si intrecciano vicendevolmente, che non c'è modo per distinguerli veramente. È vero che nelle scienze umane è stato dimostrato che non siamo solo ricercatori di ordine e coerenza, che la nostra razionalità è limitata. Ma almeno in psicologia queste scoperte di alcuni decenni fa non sono state la premessa di alcuna psicologia irrazionalista. Un altro rischio è insito in certo cristianesimo equivocato, secondo cui bisogna pregare tralasciando la ragione, secondo cui la cultura è presunzione oppure secondo cui  la cultura laica allontana dalla fede. Bisognerebbe ricordarsi che per Sant'Agostino fede e ragione non si escludevano, così come si dovrebbe ricordarsi che si può usare la ragione e avere fede, speranza, carità.  Scrivevo che non bisogna abbandonare il pensiero, per quanto non si possano concepire la vita e il mondo solo con il pensiero. È vero che c'è la minaccia costante che ogni cultura si riveli fasulla, che ogni pensiero si riveli improduttivo di fronte a qualsiasi tipo di fine, ma dobbiamo immaginare il pensiero, almeno quello della nostra civiltà,  come immortale. Forse finirà la nostra civiltà ma quasi certamente sopravviverà il pensiero, la cultura di quella civiltà. Certamente c'è anche il rischio dell'Apocalissi,  allora c'è la minaccia annessa e connessa della tabula rasa, della scomparsa completa della civiltà. Ma perché essere così pessimisti e pensare che per forza di cose tutto debba finire? In fondo Cioran scriveva che una nuova civiltà verrà fatta con  i reietti della vecchia civiltà. Chi l'ha detto che il cosiddetto ricambio generazionale debba per forza di cosa celebrare il passaggio dai padri ai figli e non debba invece coinvolgere i reietti, gli eslegi? In fondo Cristo gridava contro i farisei e apriva le porte dei cieli ai pubblicani, alle prostitute, ai ladroni. Ci deve consolare il fatto che l'umanità,  se si saprà salvaguardare, può essere immortale. A volte però penso egoisticamente che può anche non interessarmi questo scenario futuribile dell'Apocalissi in quanto non lascerò al mondo dei figli. Ma a volte ci penso a coloro che verranno, anche se qui si naviga a vista, tra molte incertezze, spaesamenti,  incognite. Probabilmente non posso fare niente di concreto, di tangibile per loro.  Posso solo continuare a pensare tra mille difficoltà, ringraziando Dio e un poco me stesso perché non mi autodistruggo, e forse questo è già un primo passo, forse è già qualcosa. Mi alzo. Ho già pagato il conto. Ho finito la birra. Dico alla barista che mi ci voleva proprio una birra. Auguro buona giornata, saluto ed esco. Ritorno a casa. 

  • Fare luce in sé e comunicare la solitudine…

    Succede che scrivo per fare chiarezza dentro me, per fare luce in me. A volte c'è un poco di confusione o un poco di combattimento in me e allora butto giù qualche riga per chiarirmi le idee o per riappacificarmi con me stesso e/o con il mondo. Scrivere significa allora approfondire, cercare un poco di verità in sé stessi, nei propri pensieri. Scrivere è prima di tutto una presa di coscienza ... Altro...

    Succede che scrivo per fare chiarezza dentro me, per fare luce in me. A volte c'è un poco di confusione o un poco di combattimento in me e allora butto giù qualche riga per chiarirmi le idee o per riappacificarmi con me stesso e/o con il mondo. Scrivere significa allora approfondire, cercare un poco di verità in sé stessi, nei propri pensieri. Scrivere è prima di tutto una presa di coscienza della notte che sta attraversando il mio animo e non solo, ma anche tutto il mondo. Inoltre in ogni mio scritto è molto spesso presente anche il tu dialogico, seppure  in forma implicita. Come in certi poeti che si rivolgono a una figura femminile, la evocano, sebbene questa li abbia delusi, traditi, respinti. La relazione dialogica, per dirla alla Buber, è una necessità di chiunque. Scrivo per mettere ordine in me stesso, per cercare di mettere in ordine il mio mondo. Non cerco fama né gloria postuma; ogni scritto di autore defunto è una traccia che sarà dimenticata nella stragrande maggioranza dei casi o sbiadita dal tempo e trasmessa a pochissimi: nel migliore dei casi è come una casa di contadini fatiscente  in cui non abiterà più nessuno o come una fabbrica dismessa che non servirà più a nessuno. I miei scritti sono testimonianza del mio (non) pensiero. Potete tacciarmi di essere uno pseudointellettuale o uno stupido, salvo poi idolatrare Gio Evan o Jovanotti come grandi maestri di pensiero e grandi poeti. Un tempo però avevo più bisogno degli altri. Cercavo conferma, rispecchiamento, affinità, simpatia dagli altri. Era presente in me l'istanza degli altri. Oggi mi accontento di scrivere, di immaginare e trovare gli altri dentro me, dato che in fondo gli altri li ho già interiorizzati. A ogni modo, da soli o in compagnia, una cosa è certa: la nostra mente è relazionale. Noi viviamo di relazioni. Anche stare da soli è un modo di relazionarsi con sé stessi.  Il problema è che ci sentiamo soffocati quando le relazioni non le percepiamo come autentiche. C'è chi trova fratture nel proprio sé ed è in crisi  con sé stesso. C'è chi ha dei blocchi comunicativi con gli altri ed è in crisi con gli altri. Avere senso del limite non significa solo accettare la nostra finitezza ma anche riconoscere  che abbiamo bisogno degli altri. Tutto questo è di facile comprensione, di facile acquisizione,  per qualcuno è pure ovvio e scontato,  però partire da questi presupposti per vivere concretamente la nostra vita è molto più difficile. Ci sono persone che non chiedono aiuto e allora si autodistruggono. A ogni modo  come scrisse Kierkegaard ogni uomo è solo di fronte a Dio. Per questa ragione scrivere e parlare sono fondamentali per comunicare la solitudine. In buona parte dei  casi per stare un minimo bene ci vuole il dono di sé a  qualche altra persona e dobbiamo ricevere il dono altrui. Dobbiamo però chiedere di volta in volta a noi stessi di cosa abbiamo veramente bisogno, che cosa ci fa stare veramente bene o veramente male, che cosa ci dà piacere e cosa è tossico. Leggevo l'ultimo numero della rivista Atelier. Leggevo che per il poeta Franco Buffoni la parola è per definizione sinallagmatica, cioè mette sempre in relazione noi con qualsiasi cosa, con qualsiasi parte di noi stessi, con qualsiasi altra persona. Ma veniamo a me.   Personalmente io oggi ho i miei familiari.  Non ho bisogno di fare le ore piccole per cercare una donna disperatamente. Non ho bisogno di affittare una prostituta e portarla in un albergo a una stella. Non ho bisogno ogni giorno di assillare un amico per cercare di fare quattro chiacchiere con lui. Non ho bisogno di recarmi in locali sovraffollati per avere l'impressione di stare con gli altri (non me ne importa niente del fatto che, come si suol dire, gente fa gente). Ma scrivere non è neanche per forza di cose uno sfogo, una consolazione: se così fosse chiederei troppo, chiederei l'impossibile alla scrittura. Scrivere per me significa avere a che fare con me; significa cercare un poco di raccoglimento interiore; significa migliorare la conoscenza interiore. La domanda che potrebbe sorgere spontanea è: cosa cerchi in te che gli altri non ti possono dare? Io potrei allora controbattere con un'altra domanda: cosa devo cercare negli altri che non posso trovare in me stesso? A seconda degli eventi, delle circostanze, della personalità di base, della mentalità possiamo cercare in noi stessi o negli altri, possiamo orientarci verso di noi o verso gli altri, ma importante è non smettere di cercare. Alla base di tutto nella vita deve esserci la ricerca e non conta se è più ricerca dell'altro o di noi stessi, anche perché può accadere che si cerchi gli altri in noi stessi oppure sé stessi negli altri, in un gioco perenne di identificazioni, introiezioni,  proiezioni. A volte penso che, al di là della dicotomia io/altri, forse la realtà è che ognuno, facendo spesso tentativi maldestri, cerca in sé stesso, negli altri, nel mondo Dio o la sua parvenza. Allora forse questa è la ricerca più vera, questo è l'incontro più autentico. Eppure è così difficile. Chi è veramente Dio in questo trambusto di religioni e di profeti? Ognuno chiama a sé seguaci, fedeli, adepti. Molti pensano che Dio sia con loro, dimenticandosi che sulle cinture dei soldati dell'esercito nazista c'era scritto "Gott mitt uns" (Dio è con noi). Come saper riconoscere la vera voce di Dio  quando la maggioranza crede negli idoli e nel vitello d'oro? In definitiva mi chiedo dove sta la verità, quale sia l'ipostasi delle cose e dove sia Dio in questo mondo di brutture. Ma è una domanda che si fanno molti nel loro cuore e che non trova mai una risposta certa. Alcuni si arrogano il diritto di giudicare, ma fingono a sé stessi. La verità è che anche chi ha fede, per onestà con sé stesso e con gli altri, deve coltivare il dubbio.

  • Ancora un semplice pensiero sulla solitudine…

    Tra il proprio io e gli altri ci sono fratture, barriere, distanze. Eppure abbiamo bisogno degli altri per colmare un vuoto interiore. C'è la solitudine del corpo che ci fa cercare un altro corpo. È qualcosa di fisiologico, ormonale da giovani e più psicologico, affettivo da maturi o anziani. C'è la solitudine dell'animo che può farmi cercare un corrispettivo femminile oppure taluni possono c... Altro...

    Tra il proprio io e gli altri ci sono fratture, barriere, distanze. Eppure abbiamo bisogno degli altri per colmare un vuoto interiore. C'è la solitudine del corpo che ci fa cercare un altro corpo. È qualcosa di fisiologico, ormonale da giovani e più psicologico, affettivo da maturi o anziani. C'è la solitudine dell'animo che può farmi cercare un corrispettivo femminile oppure taluni possono cercare addirittura Dio grazie a essa. Siamo nati così con un'apertura all'altro o addirittura all'Altro. L'uomo è animale politico, sociale, etc etc. La verità è che siamo con gli altri anche in perfetta solitudine. Anche se fossimo soli su un'isola deserta gli altri sarebbero presenze fantasmatiche. Succede che sentiamo l'assenza degli altri, che abbiamo sempre bisogno degli altri. Nella migliore delle ipotesi a prolungati periodi di solitudine si devono alternare sporadici contatti sociali: non ne possiamo fare a meno. Stare troppo soli, anche per l'autoperfezionamento e per l'elevazione spirituale, significa chiedere troppo a sé stessi e stare male alla fine. Pochissimi esseri umani possono imitare la solitudine divina. Nel migliore dei casi si va incontro alla deprivazione sociale, nel peggiore dei casi alla follia. È vero che gli altri possono distrarre i mistici da Dio, ma è uno sforzo immane fare come i Padri del deserto! La solitudine è qualcosa che tocca le più intime fibre del nostro essere perché, come ci insegna la mitologia, siamo esseri umani e perciò ontologicamente incompleti. Un gradino da superare è quello di rompere la nostra solitudine. La colpa o il merito non è attribuibile unicamente a noi. Dipende anche dagli altri, dalla sorte che abbiamo, etc etc. Un altro gradino da superare è quello di costruire una relazione duratura e  autentica. La cosa non è affatto scontata perché la realtà, anche quella umana,  è sempre più effimera e strumentale. Tutto sembra essere interessato, avere un secondo fine. Anche qui ci vuole una mano dal Fato. L'innamorato si chiederà: per quale motivo mi ama? Oppure confessa a un amico: vorrei che la mia ragazza mi prendesse per quello che sono. Di fronte a questa esigenza interiore io mi sono sempre detto che nessuno può prendere nessuno per come è perché nessuno sa come è nessuno. In fondo chi, come, cosa siamo? Nessuno lo sa. Possiamo solo fare supposizioni più o meno fondate. Per prendere un'altra persona per quello che è veramente bisognerebbe conoscerla nel profondo del proprio Sé. Ma ci sono zone morte e zone inesplorate anche nel nostro io. Il dialogo spesso è superficiale. Si parla del più o del meno. Non si va in profondità. Figuriamoci quanto è approssimativa e improvvisata la conoscenza altrui! Non bisogna neanche chiedere l'impossibile alla relazione con gli altri che ha naturalmente dei limiti evidenti. Come ho già scritto chiedere  l'amore totalizzante o l'empatia totale facendo della persona amata quasi una divinità è chiedere troppo: quando le aspettative sono troppo elevate si vivono delusioni profonde. Allora visto che non possiamo chiedere l'impossibile ci dobbiamo limitare alla comunione dei corpi, alla speranza remota degli orgasmi reciproci, al calore umano, alle carezze, agli abbracci. Le parole dicono molto: oggi ci sono mille  tentazioni sessuali. Un tempo tutto era peccato. Un tempo si parlava di vizio, di voglie sessuali. Oggi si parla di esigenze sessuali da soddisfare. Non si può esimersi da questo. Tutti pretendono l'orgasmo. La fisicità è la premessa di tutto. Siamo passati da un estremo all'altro. È da anni che pratico l'astinenza sessuale.  Alcuni mi chiedono come faccia. Io rispondo che cerco di non pensarci e sopporto. Qualche persona mi chiede a chi gioverà la mia astinenza, intendendo dire che è tutta energia sprecata, vita buttata. Io non sarò affatto migliore astenendomi, ma intanto non sono dipendente dal sesso. Il problema è che oggi molti/e vogliono tutto subito e non sopportano la loro insoddisfazione.  Alla base di tutto c'è l'amore del corpo dell'amata. Eppure, nonostante ogni essere umano rimugini più volte al giorno le sue fantasie erotiche, una coppia in media fa l'amore 2-3 volte alla settimana in media. C'è una tensione continua, un desiderio costante in questo mondo ipersessualizzato che però è inconcludente,  inappagato, frustrante.  Siamo sottoposti nella vita reale e in quella virtuale infruttuosamente a mille stimoli erotici. L'immaginario erotico ci distoglie dal pensiero, dalla conoscenza autentica di noi stessi e degli altri. Finisce così che molte donne sospettano che tutto o quasi nei rapporti, anche più sporadici con gli altri, sia finalizzato al sesso. Il sesso in Occidente sembra essere diventato da mezzo per la procreazione o per la conoscenza il fine ultimo di moltissime relazioni. Ci sono donne che si offendono se gli uomini non ci provano; per costoro gli uomini devono corteggiarle,  provarci, adorarle...altrimenti sospettano che non siano veri uomini, che non siano virili. Le solitudini si cercano, cercano di essere condivise, di entrare in comunione tra di loro, di compenetrarsi. Ma è difficile oggi costruire legami solidi, saldi. Si può essere soli anche in coppia, anche con una famiglia, se ci si sente incompresi. Cerchiamo noi stessi negli altri, ma per instaurare una relazione autentica dobbiamo anche cercare un nuovo orizzonte negli altri e la cosa deve essere reciproca. Il problema di fondo è che a nessuno basta rompere la solitudine con qualsiasi altra persona, ma cerca persone simili o complementari. Infine al mondo d'oggi ci sono tante persone sole perché non ammettono di essere sole, perché pensano di riuscire a stare da sole e perché si vergognano di dire che sono sole. 

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Articolista, collaboratore di blog e riviste.

Nato nel 1972 a Pontedera,  laureato in psicologia.

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