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Fare luce in sé e comunicare la solitudine…

Succede che scrivo per fare chiarezza dentro me, per fare luce in me. A volte c’è un poco di confusione o un poco di combattimento in me e allora butto giù qualche riga per chiarirmi le idee o per riappacificarmi con me stesso e/o con il mondo. Scrivere significa allora approfondire, cercare un poco di verità in sé stessi, nei propri pensieri. Scrivere è prima di tutto una presa di coscienza della notte che sta attraversando il mio animo e non solo, ma anche tutto il mondo. Inoltre in ogni mio scritto è molto spesso presente anche il tu dialogico, seppure  in forma implicita. Come in certi poeti che si rivolgono a una figura femminile, la evocano, sebbene questa li abbia delusi, traditi, respinti. La relazione dialogica, per dirla alla Buber, è una necessità di chiunque. Scrivo per mettere ordine in me stesso, per cercare di mettere in ordine il mio mondo. Non cerco fama né gloria postuma; ogni scritto di autore defunto è una traccia che sarà dimenticata nella stragrande maggioranza dei casi o sbiadita dal tempo e trasmessa a pochissimi: nel migliore dei casi è come una casa di contadini fatiscente  in cui non abiterà più nessuno o come una fabbrica dismessa che non servirà più a nessuno. I miei scritti sono testimonianza del mio (non) pensiero. Potete tacciarmi di essere uno pseudointellettuale o uno stupido, salvo poi idolatrare Gio Evan o Jovanotti come grandi maestri di pensiero e grandi poeti. Un tempo però avevo più bisogno degli altri. Cercavo conferma, rispecchiamento, affinità, simpatia dagli altri. Era presente in me l’istanza degli altri. Oggi mi accontento di scrivere, di immaginare e trovare gli altri dentro me, dato che in fondo gli altri li ho già interiorizzati. A ogni modo, da soli o in compagnia, una cosa è certa: la nostra mente è relazionale. Noi viviamo di relazioni. Anche stare da soli è un modo di relazionarsi con sé stessi.  Il problema è che ci sentiamo soffocati quando le relazioni non le percepiamo come autentiche. C’è chi trova fratture nel proprio sé ed è in crisi  con sé stesso. C’è chi ha dei blocchi comunicativi con gli altri ed è in crisi con gli altri. Avere senso del limite non significa solo accettare la nostra finitezza ma anche riconoscere  che abbiamo bisogno degli altri. Tutto questo è di facile comprensione, di facile acquisizione,  per qualcuno è pure ovvio e scontato,  però partire da questi presupposti per vivere concretamente la nostra vita è molto più difficile. Ci sono persone che non chiedono aiuto e allora si autodistruggono. A ogni modo  come scrisse Kierkegaard ogni uomo è solo di fronte a Dio. Per questa ragione scrivere e parlare sono fondamentali per comunicare la solitudine. In buona parte dei  casi per stare un minimo bene ci vuole il dono di sé a  qualche altra persona e dobbiamo ricevere il dono altrui. Dobbiamo però chiedere di volta in volta a noi stessi di cosa abbiamo veramente bisogno, che cosa ci fa stare veramente bene o veramente male, che cosa ci dà piacere e cosa è tossico. Leggevo l’ultimo numero della rivista Atelier. Leggevo che per il poeta Franco Buffoni la parola è per definizione sinallagmatica, cioè mette sempre in relazione noi con qualsiasi cosa, con qualsiasi parte di noi stessi, con qualsiasi altra persona. Ma veniamo a me.   Personalmente io oggi ho i miei familiari.  Non ho bisogno di fare le ore piccole per cercare una donna disperatamente. Non ho bisogno di affittare una prostituta e portarla in un albergo a una stella. Non ho bisogno ogni giorno di assillare un amico per cercare di fare quattro chiacchiere con lui. Non ho bisogno di recarmi in locali sovraffollati per avere l’impressione di stare con gli altri (non me ne importa niente del fatto che, come si suol dire, gente fa gente). Ma scrivere non è neanche per forza di cose uno sfogo, una consolazione: se così fosse chiederei troppo, chiederei l’impossibile alla scrittura. Scrivere per me significa avere a che fare con me; significa cercare un poco di raccoglimento interiore; significa migliorare la conoscenza interiore. La domanda che potrebbe sorgere spontanea è: cosa cerchi in te che gli altri non ti possono dare? Io potrei allora controbattere con un’altra domanda: cosa devo cercare negli altri che non posso trovare in me stesso? A seconda degli eventi, delle circostanze, della personalità di base, della mentalità possiamo cercare in noi stessi o negli altri, possiamo orientarci verso di noi o verso gli altri, ma importante è non smettere di cercare. Alla base di tutto nella vita deve esserci la ricerca e non conta se è più ricerca dell’altro o di noi stessi, anche perché può accadere che si cerchi gli altri in noi stessi oppure sé stessi negli altri, in un gioco perenne di identificazioni, introiezioni,  proiezioni. A volte penso che, al di là della dicotomia io/altri, forse la realtà è che ognuno, facendo spesso tentativi maldestri, cerca in sé stesso, negli altri, nel mondo Dio o la sua parvenza. Allora forse questa è la ricerca più vera, questo è l’incontro più autentico. Eppure è così difficile. Chi è veramente Dio in questo trambusto di religioni e di profeti? Ognuno chiama a sé seguaci, fedeli, adepti. Molti pensano che Dio sia con loro, dimenticandosi che sulle cinture dei soldati dell’esercito nazista c’era scritto “Gott mitt uns” (Dio è con noi). Come saper riconoscere la vera voce di Dio  quando la maggioranza crede negli idoli e nel vitello d’oro? In definitiva mi chiedo dove sta la verità, quale sia l’ipostasi delle cose e dove sia Dio in questo mondo di brutture. Ma è una domanda che si fanno molti nel loro cuore e che non trova mai una risposta certa. Alcuni si arrogano il diritto di giudicare, ma fingono a sé stessi. La verità è che anche chi ha fede, per onestà con sé stesso e con gli altri, deve coltivare il dubbio.

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