Santo cielo!, la signora Marianna — esclamò all’improvviso Giuseppe — cambiamo strada, figliolo, se ci vede ci attacca un bottone che non finisce mai.
— Ma papà, la signora Marianna è la nostra sarta; poi i tuoi bottoni sono in ordine, non ne manca nessuno, sono tutti attaccati; di cosa ti preoccupi?
— È un modo di dire, bambino mio; voglio dire che se la signora Marianna ci vede, ci ferma e comincia a parlare, a parlare; noi andiamo in fretta e non abbiamo tempo a sufficienza per prestarle ascolto.
— Allora i bottoni non c’entrano… perché hai detto ci attacca un bottone quando avresti potuto dire benissimo che avrebbe cominciato a parlare? Che linguaggio usi? arabo? cispadano?
— Nessuno dei due, figliolo: attaccare bottone è un modo di dire proprio della nostra lingua; è una frase così detta idiomatica; tutte le lingue, se non sbaglio, hanno le loro frasi idiomatiche.
— Idio… che?
— Idiomatiche. L’idioma è un linguaggio proprio di un popolo; deriva dal greco ιδίωμα (idìoma) che significa particolarità, peculiarità, come indica l’aggettivo greco ίδιος (ìdios), appunto.
— E attaccare bottone?
— Per spiegare l’origine di questo idiomatismo occorre tornare indietro nel tempo e occuparsi un po’ di storia della medicina, ma forse sarebbe meglio dire della chirurgia. Quando l’arte medico-chirurgica non era avanzata come oggi, i sanitari per cauterizzare le ferite adoperavano uno strumento di ferro la cui estremità terminava con una sorta di pallottola simile a un bottone cui si dava fuoco. Va da sé che il paziente al quale veniva attaccato il bottone provava, sia pure per pochissimi secondi, un dolore intensissimo.
Da ciò la locuzione attaccare bottone fu adoperata fuori del campo strettamente medico, in senso figurato, con il significato di parlar male di qualcuno attaccandolo con discorsi che gli dessero fastidio, pungendolo con calunnie. Con il trascorrere del tempo quest’espressione ha acquisito il significato di affliggere, costringere, cioè, una persona a sopportare un discorso lungo e, a volte, noioso.
— A proposito di idiomatismo, quindi di lingua, papà, molto spesso leggo sui giornali elementarietà; altre volte, invece, elementarità. La e in mezzo, insomma, ci vuole o no?
— No, per una regola grammaticale semplicissima: finiscono in –ità i sostantivi i cui aggettivi corrispondenti appartengono alla seconda classe, hanno, cioè, la desinenza in e; terminano in –ietà, invece, i sostantivi i cui relativi aggettivi finiscono in o, vale a dire gli aggettivi della prima classe.
Abbiamo, quindi, elementarità (senza la e in mezzo) perché l’aggettivo corrispondente è elementare; diciamo, invece, varietà perché il relativo aggettivo è vario, finisce, cioè, con la o. Stando a questa regola dovremmo dire, quindi, umanietà perché l’aggettivo corrispondente è umano, con la o finale. Giusto?
Semplifico la regola, allora: fanno in –ietà i sostantivi derivati da aggettivi che contengono una i nella terminazione. Abbiamo, per tanto, vanità perché l’aggettivo è vano e notorietà perché il corrispondente aggettivo è notorio.
(Dal libro “Un tesoro di lingua”, di Fausto Raso, Ed. Nuove Direzioni, Firenze 2016, non in vendita. Si può scaricare, gratuitamente, da Internet).