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'L'edera'. La Sardegna di Grazia Deledda

L’edera, romanzo del 1908 di Grazia Deledda, è il racconto di un solo personaggio, Annesa, la “figlia d’anima”, la giovane serva che si innamora del proprio padroncino. La sua maturazione avviene significativamente sulla “via di Damasco”, dalla cecità del male alla luce del bene, implicata nella pragmatica di esistenti immodificabili nei loro ruoli e dietro le loro tragiche maschere. La coscienza del peccato che si accompagna al tormento della colpa e alla necessità dell’espiazione e del castigo, la pulsione primordiale delle passioni e l’imponderabile portata dei suoi effetti, l’ineluttabilità dell’ingiustizia e la fatalità del suo contrario, segnano l’esperienza del vivere di una umanità primitiva, malfatata e dolente, “gettata” in un mondo unico, incontaminato, di ancestrale e paradisiaca bellezza, spazio del mistero e dell’esistenza assoluta.

Più volte e in separate pagine chi scrive ha creduto di scorgere, concordemente e sulla scorta di buona parte della vulgata critica, l’originalità e la forza della narrativa deleddiana proprio nella appassionata e magistrale rappresentazione dell’auto-modello sardo e, soprattutto, nella
proiezione simbolica del suo universale concreto. Sullo sfondo di paesaggi edenici, carichi di emozioni e di suggestioni incantatorie, l’isola è restituita e intesa, nelle pagine della scrittrice, come luogo mitico e come archetipo di tutti i luoghi, terra senza tempo e sentimento di un tempo irrimediabilmente perduto, spazio ontologico e universo antropologico entro cui si consuma l’eterno dramma del vivere.

Grazie Deledda per questo romanzo si avvale l’artificio per parlare d’altro, lo piega ad un ine più alto. Questo è ciò che la rende una grande scrittrice, figlia ed erede, a suo modo, della grande tradizione umanistica, che aveva teorizzato il miscēre utile dulci e il docēre delectando, e costituito il fondamento di un’idea della letteratura come «formatrice della vita intellettuale e morale dell’uomo, come moderatrice della sua natura»; un’arte educatrice con finalità essenzialmente etiche, che nei secoli aveva mirato ad insegnare e a dilettare, a consolare e a far riflettere.

Con la Deledda, e tramite la sua operazione artistica, la Sardegna entra a far parte dell’immaginario europeo.
Una realtà geografica e antropologica si trasforma, come ha efficacemente rilevato Nicola Tanda, nella «terra del mito», metafora di una condizione esistenziale, quella del primitivo, che proprio la cultura del Novecento aveva recuperato come unica risposta possibile al disagio esistenziale creato dalla società industriale e luogo per eccellenza dove rappresentare le angosce dell’uomo contemporaneo di fronte al progresso scientifico.

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