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La Pizia. Parte II

Il vaticinio doveva trovare la sua prova nel reale 

(La Sfinge non si gettò dalla rupe, essere alieno e straordinario. Si era allontanata dopo la risposta, rifugiando in antri oscuri. In spregio alle umani genti: compiuto era stato il ruolo destinatele dal Fato). 

Edipo non doveva incontrare scampo al futuro, seppure fosse stato illuso di esservi sfuggito.

Il Dio non ammette deviazioni al suo volere: in un modo o nell’altro è indispensabile e necessario l’avverarsi di quanto profetizzato. 

Altrimenti che figura ne farebbe? 

Così, stritolato dalle parole pronunciate in questa grotta, Edipo trovò il suo destino confermato. 

La Pizia di allora rise nella grotta: il contatto con gli dei consuma la pietà per le umane sorti. 

Voi non sapete quante di noi si consumarono la mente qui, al buio, abbagliate dal divino: alcune fuggivano, rese folli, altre ne morivano e altre ancora, le più fortunate o le meno sensibili, impararono a provare piacere in quel potere che guida gli Olimpici., lambendone le vesti, suggendo, avide, microscopiche stille di ambrosia.  

Il futuro è una narrazione sottile che si rivela a noi in immagini e sussurri. È una rete immane in cui se, a voi, è visibile la trama, l’ordito spetta ineluttabilmente agli dei. Basterebbe soltanto sfiorare uno di quei fili e lo scenario si articolerebbe secondo altre, rinnovate, possibilità.

Se solo poteste innalzarvi di qualche centimetro da terra, lo vedreste anche voi. 

Ma non avete un tripode a sorreggervi o un dio a elevarvi.

Uomo, sei certo di quel che domandi?

Uomo, sei sicuro che ora sarai libero?

Uomo, saprai tollerare il non esser libero?

Ora l’ingresso al tempio verrà sbarrato.

Ovviamente, lo sapevo. 

Lo sapevamo da tempo immemore. 

Altrimenti quale potere oracolare avremmo posseduto mai? 

Non posso dire che mi dispiaccia: non avrò bisogno di certo di quella grotta per vivere la mia esistenza. 

Il contatto con il dio consente di trattare il proprio destino e io so quale sarà il mio. 

I templi, ormai muti gli oracoli, saranno chiusi nel migliore dei casi o distrutti, in nome di un solo simbolo che andrà riassorbendo il molteplice, rinnegandone la lussureggiante potenza.

Questa nuova religione viene a soppiantare la nostra umana, innata, inquietudine con la certezza di un futuro, seppure molto distante e impalpabile,  di pace e amore. 

Ben venga. 

Gli uomini si fanno sempre più fragili. E, lo devo ammettere, la  fiducia dei seguaci di questa nuova (arcaica ai miei occhi) fede nel libero arbitrio, in un primo tempo, mi affascinò: suadente pensare che vi sia spazio alla propria volontà e che esista la scelta.

Li ascoltavo, avvolta, non conosciuta, nel mio peplo: Sarete liberi! Affidatevi al nostro Salvatore!

Contrapposti orizzonti vanno delineandosi. 

Al fato, la libera scelta.

Al crudele sorriso dell’inconoscibile, l’insondabile amore.

Alle sfumature umane degli olimpici, ormai trincerati dietro un misterioso e prolungato silenzio, una potenza misericordiosa, insondabile. 

Altrettanto silente. 

Ne fui quasi attratta… 

No, mi spiegai, non era tempo per me di delegare alla vaga speranza il taglio netto di Atropo.

Perché abbandonare per un manicheismo, appena appena velato d’amore, il divino che mi aveva abitato per così lungo tempo?

Il mio dio già mi aveva sussurrato, in una notte d’inquietudine, lui ed io, soli, in attesa che i suoi stridenti suadenti suoni si allontanassero, quale fato mi apparteneva. 

Libera scelta o meno, io l’avrei percorso. 

Memore di Edipo, avrei forse potuto compiere anche io la mia strada, ma ben presto mi sarei resa conto che chi tirava le mie fila stava solo allungando le fila che mi vincolano, verso l’ineluttabile destino, illudendomi.

Uomo, cosa domandi al domani?

Uomo, sai sciogliere l’enigma del responso del dio?

Uomo, sai cogliere nella tua stessa domanda la risposta che non si manifesta?

Ingenui. 

Alcuni erano davvero ingenui. 

I servitori li facevano passare, perché toccava far quadrare i conti del tempio. Avevamo, le mie sorelle ed io, memorizzato risposte usuali a domande banali. Mi ama? Come sarà il raccolto? È ora di intraprendere quel viaggio? 

Non si disturbava il dio per questi miseri quesiti. Anche se, talvolta, questi faceva capolino con quel sussurro che accapponava le meningi, solo per irridere quegli stolti. Avrebbero fatto meglio a dar retta ai loro prossimi, al loro istinto ma la parola del dio era l’unica che sapesse placare le loro incertezze. 

Non compresero mai, nessuno comprese, che disturbare la mente di un dio provoca alterazioni nel fato degli uomini, nel tessuto di eventi ramificati che li circonda. È una perturbazione tale degli equilibri permettere l’accesso diretto al sacro nella quotidianità che non può non costare, e che ineluttabilmente altererà per sempre la vita dell’uomo che richiede. 

Gli stolti cercavano consolazione ed ottennero la moltiplicazione e l’accelerazione del loro destino. 

Lo mutarono quasi da soli, con le loro scellerate interpretazioni. 

Non si interpreta il divino, lo si esegue senza nessuna nozione cosciente. Avrebbero fatto meglio a spogliarsi e a partecipare a un corteo dionisiaco: avrebbero denudato la loro mente dei vari orpelli che la rafforzano in una vacua identità per liberarsi dalla scelta, iniziando a seguire il loro fato senza corrispondenza di attaccamento. 

E invece no, me li trovavo davanti, tremebondi, già consci della risposta e ignari a loro stessi. Talvolta non serviva neanche il dio: bastavamo noi, con la saggezza delle nostre consorelle che ci scorreva nel sangue da generazioni, memorie e memorie che si proiettavano nella nostra mente a ricercare la formula adatta che usciva, in un grido da raggelare il sangue, improvvido e improvviso. Sbiancavano in volto: era la rivelazione del dio che li pietrificava; comprendevano di aver commesso un fatale errore. Non avrebbero trovato serenità nella risposta, ma solo l’orrore della mente umana sfiorata dall’incommensurabile. 

Io sorridevo. 

La loro infima tracotanza li aveva puniti.

Uomo, chiedi a una donna ciò che già conosci perché la profondità della tua stessa voce non può reggere il suono delle proprie parole.

Uomo, chiedi a un dio per timore della tua stessa risposta.

Uomo, domandi al di fuori di te stesso perché dentro di te il buio è più spaventoso che nell’antro dove ora ti trovi. 

Si concludeva il mio compito, tornavo alle mie stanze. Mi svestivo e l’acqua tiepida mi accoglieva. Mi stavo spogliando del dio, ripulendomi nel grembo liquido primordiale. Faceva capitolino, talvolta, sulla mia pelle, il luccichio delle scaglie di Pitone, la madre serpente che il mio dio millantava di aver trafitto. Non era mai accaduto. I misteri del fato si nascondono sempre tra le mani delle donne che generano e sacrificano e  sollevano la polvere dagli altari e danzano alla luce delle fiamme nelle notti di luna piena e consacrano il loro ventre nelle grotte o sotto le fronde dei frassini alla forza generatrice della terra che sola, in un immane impulso, partorì sé da sé stessa. 

In quell’acqua salmastra, racchiusa negli anfratti sotto il tempio, si mescevano le lacrime e i flussi e le maree e il mistero rigenerante della vita e il tempo e il residuo del tempo.

La voce del dio reclamava il suo posto, lo percepivo acquattato nell’ombra, l’arco teso, pietrificato nel gesto, ma in quei momenti solo la Madre poteva raccontare le storie del mondo. Io, cullata da quel mormorio simile alla marea, in un’oscurità profonda come quella della crepa che si insinuava sotto il tripode, mi addormentavo. Non ricordavo altro che frammenti di quei sogni imperiosi e sublimi. Il dio tornava, alla luce del giorno e nel tempio avrebbe cercato di scovare Pitone, per concludere il suo compito. Invano. Mi avrebbe ancora attraversato con la sua straniante voce, credendo di aver soppiantato la Madre. Illuso. 

Tutto appartiene alla Madre. 

Anche il dio. 

Uomo, dove ti nasconderai quando avrai la tua risposta?

Uomo, come potrai guardare i tuoi conoscendo la tua via?

Uomo, chi ti ascolterà più temendo che tu conosca già le risposte?

L’imperatore chiude la strada al tempio. 

Fulgida si apre la via al nuovo dio.

Mi domando chi ascolterà più le voci tra le foglie stormire e chi vorrà immergersi nelle grotte per riprovare il terribile atto della nascita che porta a compimento il fato prescritto… 

Sciocche fole di donna, inutili questioni umane. 

Al divino non importa nulla di noi. 

È. 

La sua sostanza: inviolabile.  

Non sparirà di certo per aver cambiato volto, interpreti e forme: il sorriso enigmatico del dio è sempre là. 

Su una croce o nel profondo del suolo, in cielo o su un monte, negli abissi del mare o su un altare, che importa?

Uomo, tu sei l’ultimo al cospetto della Pizia: domanda. 

Ma che il tuo parlare sia breve, il tempo si sta chiudendo su di noi. 

Uomo, taci? Qualcosa allora è stato compreso. 

Il silenzio propizia il sorgere degli astri. Una volta giunse qui un uomo che, solo, di tale titolo potè vantarsi. Ebbe per noi l’unica domanda che possa dirsi tale e attese la risposta con lo stesso spirito del fanciullo innanzi a un dono atteso a lungo. 

Per lui, la parola del dio si fece saetta. 

Conosci te stesso. 

Non c’è altro.

Anche al tuo meschino silenzio.

Vattene ora.

Il dio sta scivolando sotto altri nomi e altri volti. 

Imperituro. 

Insondabile.

Eterno.

Forse, rivolgendo il tuo volto a uno pecchio d’acqua, lo riconoscerai.

Nel suono del tempo che maestoso si distende in toni senza fine, la sua parola ti giungerà limpida.

Ma nessun’altra Pizia potrà spiegarti l’ambiguità del tocco con il divino.

Le selve mi attendono.

La Sfinge mi attende. 

Avremo molto di cui discutere entrambe: abbiamo vissuto di enigmi e in enigmi si rivela la Verità.

Avremo l’eternità dell’oblio a cullarci. 

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