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Malvina BruniOffline

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  • Camera anecoica. 2.

    il mio antenato, quello divorato intendo, viveva seguendo altri ritmi e non certo le scadenze e le bollette e le menate dei ritardi e degli anticipi: il sole sorge, mi alzo; il sole cala, accendo il fuoco, costruisco un riparo; si mostra la volta stellata, dormo.  all'alba, cammino e inseguo la mia preda, stando attento a non divenire io la preda. non come noi, nevrotici, in fila al supermerc... Altro...

    il mio antenato, quello divorato intendo, viveva seguendo altri ritmi e non certo le scadenze e le bollette e le menate dei ritardi e degli anticipi: il sole sorge, mi alzo; il sole cala, accendo il fuoco, costruisco un riparo; si mostra la volta stellata, dormo.  all'alba, cammino e inseguo la mia preda, stando attento a non divenire io la preda. non come noi, nevrotici, in fila al supermercato: la preda inscatolata, imbustata e pesata.  il prezzo della sua conquista lo scontrino e il denaro da sborsare. la fila si allunga e la nostra pare ferma. proviamo quel perenne senso di frustrazione da cassa del supermercato, mi dico io, dato dalla memoria atavica tradita di esserci ancora una volta dimostrati incapaci di procurarci del cibo, alla pari, lottando contro le belve? il mediocre nostro sopravvivere, ricordatoci, a scorno, dalle buste della spesa? se non il saldo più conveniente, nessun trofeo resta del mio antenato che scuoterebbe la testa in segno di disapprovazione, magari frastornato dai colori delle confezioni e dagli odori artificiali dei cibi. la tigre però non mi pare una alternativa poi così allettante, mio caro antenato! guarda che fine hai fatto! privi del super udito per la tua distrazione! e che ne sarà stato della linea genetica di coloro i quali si immolarono, ingenui o temerari, per assaggiare piante, animali e qualsiasi cosa avesse parvenza di nutrimento? i sommelier e i gourmet sono forse gli eredi di coloro i quali sopravvissero? ne rimane traccia nel loro DNA? dovremmo ben pensare a una sorta di riconoscimento, magari una bella statua: AL SACRIFICIO PER LA COMMESTIBILITA'. non ci pensa mai nessuno? ma quanti rami anche qui potati per garantire un futuro alle future generazioni? e senza pensare ad altro che al proprio (preistorico) stomaco vuoto! il massimo egoismo vantaggioso per i discendenti. non è forse così che è proceduto il mondo? l'ottimizzazione del proprio bisogno che, a cascata, porta vantaggio a chi verrà? e così appare come se vi fosse una richiesta dalla vita: che si proceda. che si continui. inesorabilmente. come è crudelmente ovvio, davanti alla scomparsa di qualcuno di caro, rendersi conto che per il resto del mondo, quello che ci pareva essere un prezioso dono, ora a noi sottratto, insostituibile, nella sua assenza, non scalfisca nulla. guardavo spesso le foto, i filmati, i quadri delle generazioni passate e non potevo non osservare quanta vita vi fosse in quegli occhi, ora svaniti. ma la traccia del loro passaggio restava e ancor più me li rendeva cari, vicini a me. quello sguardo avrebbe potuto essere il mio e quel sorriso, quella posa: non forse erano i miei? sarebbe accaduto anche a me: svanire, divorato nel gorgo del tempo. ma rimettendomi a questa sensazione che la vita vuole solo la vita, che procederà perché in se stessa trova la sua giustificazione e la sua ragion d'essere, al di là dell'individuo. pensai che, un giorno, il più lontano possibile, ovviamente, pur avendo concluso il mio ciclo vitale, capendone meno di quanto avrei voluto, qualcosa permarrà. intrecciata la serie di cause e conseguenze quale sono io, avrò portato avanti un frammento  di questa necessità. idea o concetto non del tutto consolante o risolutivo , ma si sa che la paura dell'oblio compete soltanto all'ego. e di ego ne possediamo a sufficienza per riempirci le ampolle sulla Luna di ariostesca memoria. per garantirci una parvenza di identità, di nucleo fondante e, invece, è un nonnulla: un grumo di passioni e di ricordi, per lo più travisati dalla memoria, così fallace, così ricostruttiva di senso a posteriori da diffidarne! ma a noi piace raccontarci per quel che fummo e che vorremmo essere, in nome di chissà quale insieme di idee che ci siamo fatti per vivere e per sopravvivere davanti al mondo. bisogna essere delicati davanti ai racconti di vita altrui: ricostruiscono non chi, ma come avrebbe voluto essere quell'io narrante. ed è lì che ogni parola e ogni immagine acquisiscono un valore per quel che rivelano nella loro scelta. siamo lo storytelling delle nostre vite. e quante ne ho raccontate io e quanti ricordi mi sono inventato, senza saperlo, senza volere: è così disarmante dire di sé. per quanto sia, inconsciamente, sfalsato dal reale! immagini e percezioni e poi una sorta di filo conduttore esistenziale: chi ha scritto la mia sceneggiatura? chi ha scelto che io dovessi preferire i lamponi alle more? e chi ha piantato in me il seme del dubbio e dell'entusiasmo? perché odio il western e mi appassiona la fantascienza? risposte nulle. se non un finto ritrovare ricordi a loro conferma: camaleonti del reale immaginato, questo sono gli esseri umani!  intanto batteva il cuore: l'istinto di preservazione è parte essenziale della vita e il mio stomaco gorgogliava, quale quello del mi antenato. allora, mi riavvicinavo alla porta, scrutando in cerca di un altro essere umano che venisse a salvarmi. e dopo tutte quelle riflessioni, mi domandai se non mancasse qualcosa al mio pensare. un concetto più ampio.  la domanda. anzi il domandone. Ma non era ancora il momento. La porta andava aprendosi ai suoni del mondo. 

  • Camera anecoica. 1.

    ..ero al buio. in quello strano silenzio riempito dai suoni del mio corpo. potevo immaginare che vi fosse qualcun altro, al di là e oltre: il mondo esisteva ancora in me, come immagine cui mi volevo ricongiungere. ma ero, lì. disperatamente solo. in quell'ovattato crepuscolo sonoro. una condizione che raramente sperimentiamo, non fosse altro per il rumore di fondo che ci accompagna, inascol... Altro...

    ..ero al buio. in quello strano silenzio riempito dai suoni del mio corpo. 

    potevo immaginare che vi fosse qualcun altro, al di là e oltre: il mondo esisteva ancora in me, come immagine cui mi volevo ricongiungere. ma ero, lì. disperatamente solo. in quell'ovattato crepuscolo sonoro. una condizione che raramente sperimentiamo, non fosse altro per il rumore di fondo che ci accompagna, inascoltato ma udibile, della città o della natura. e poi c'è sempre qualcosa che si muove nei pensieri, nella mente. e la mente, infatti, si agitava. riottosa a calmarsi, una proiezione impazzita 24/7: fotogrammi e parole che si accavallavano privi di una logica e di un criterio di definizione su cosa volessi io proiettare, libera e selvaggia. io ero diventato una sorta di identità isolata e messo faccia a faccia con me stesso, in quella stanza: non solo preso  dai miei pensieri, ma anche e soprattutto a contatto intimo con il mio corpo. un prodigio a pensarci bene: organi e sistemi che in autonomia ci mantengono in vita senza la nostra partecipazione. in quei momenti, chissà come, seppur sia comprensibile, mi si presentava alla mente la struttura dell'orecchio interno. che pensiero assurdo: la sua immagine, vista chissà quando e dove, e memorizzata, evidentemente, a mia insaputa, mi si proponeva costantemente e io la ruotavo nella fantasia, sospeso in quel tempo che scorreva piano e denso.  vedevo chiaramente le parti dell'orecchio interno. come si erano formate, in quanto tempo e seguendo quale legge di selezione naturale... erano  nate o si erano evolute, per prove e funzionalità, in quel modo? il che mi portava a pensare che ci fosse, che dovesse esistere un qualcosa all'origine che, con la potenza infinita e strabordante della sua immaginazione, con la sua capacità di valutare cosa sarebbe andato meglio per vivere sul pianeta sul quale posiamo le nostre orme, ci avesse dotato di un qualcosa di così sofisticato, progettato per garantirci una forma di sopravvivenza  tramite il suono captato del mondo esterno. attenzione però: entro una determinata fascia di frequenze e non più ampia o più limitata, per non confonderci e renderci vulnerabili.  forse un nostro antenato poteva udire ben oltre noi, ma la sua capacità lo aveva posto davanti a un problema di sovraesposizione che non lo aveva avvantaggiato: la tigre dai denti a sciabola se lo era divorato, d'un balzo, incredula per quella scarsa attenzione al pericolo della sua preda, ed era lui, il nostro antenato potenziato, distratto dal cinguettio voluttuoso di qualche uccello e dall'impetuoso gorgoglio di un rivolo d'acqua: selezione naturale immediata e così ci siamo persi la possibilità di udire l'attuale inudibile. andata! addio al super udito! e mentre il mio antenato diveniva un ramo evolutivo brutalmente potato, permaneva la domanda sulla possibilità e la probabilità del nostro pur semplice esistere.  e io mi chiedevo, in quel mostruoso monologo interiore, che tutti noi abbiamo provato e che ci inonda con il suo flusso incoerente le menti generalmente prive di una qualsiasi forma di argine, ma come era possibile essere divenuti quali siamo? perché non altrimenti? perché poi così differenti fra noi? il contesto ci aveva plasmato e un ordine interno, autoregolamentato da differenti tipi di "tigri dai denti a sciabola" , pronte a selezionare, a scremare  e a ottimizzare.  una efficienza quasi paradossale nella sua varietà infinita di forme animali e vegetali... intanto il tempo trascorreva e pareva aver preso una sua dimensione tangibile. avrei potuto afferrare un minuto e stringerlo tra le mie mani, la trasposizione materiale di sessanta secondi che scorrevano tra le mie dita: in quel momento il tempo era allineato con me. ero nel e del tempo. uno, due, tre e quattro e via così.  fisso nell'istante. provavo una pace in quel ritmo che si affiancava al mio, a quello dei battiti del mio cuore. che pace, in quel preciso istante... poi ritornavo al confuso apparire e svanire del film 24/7. la sensazione mi aveva sconcertato: noi siamo sempre un po' sfalsati rispetto al tempo: quello della storia, della società e del mondo. ci portiamo un po' in avanti: ecco ci sporgiamo sul futuro. un po' indietro e precipitiamo nel passato. in bilico su una sfera di ore e giorni e anni, confusi e precari quali siamo. poi, magicamente, accade. entriamo nel tempo e ci ricolleghiamo al suo ritmo: il nostro cuore incontra la follia di un altro essere, sfalsato anch'esso, che gli risponde. il prodigio! come si fa a sapere se si è innamorati, se si è un più vivi, se non quando il tempo acquisisce una sua temporanea sospensione che ci immerge nel tempo del mondo e libera quella nostra follia, relegata in un angolo, a ricomporci nel presente? a reinserirci nel tempo, a farci abitare un tempo che è un luogo dell'anima, finalmente, presenti e vivi... mi sembrava un pensiero profondo: ne provavo una sorta di commozione, quella che accompagna le grandi scoperte. quelle verità che forniscono ossatura alla nostra esistenza. mi ci sarei anche voluto soffermare, per coglierne le sfumature e i rimandi ai miei giorni, ma la mia mente si era rimessa in azione. il moto implacabile dei pensieri, in quel silenzio, pareva assurdo a dirsi: in quella condizione di isolamento, mi sentivo come quegli speleologi che si fanno rinchiudere per mesi nelle grotte e poi, tornati in superficie, credono di aver guadagnato un giorno o due. il tempo interno si è dilatato ed espanso, privo com'è di riferimenti. tic tac tic tac... 

  • Il temibile azzardo della scarpetta

    Non pensare di poter cambiare le cose se continui ad agire allo stesso modo. Una banalità.Un’ovvietà.Una di quelle frasi che ritrovi sui social a incoraggiare esseri umani di mezza età, alle prese con bilanci sulla sensazione dello spreco di tempo delle loro esistenze, sulle illusioni perdute e su quant’altro resta del loro tempo, quando la china del declino inizia a prendere velocità... Altro...

    Non pensare di poter cambiare le cose se continui ad agire allo stesso modo. 

    Una banalità.

    Un’ovvietà.

    Una di quelle frasi che ritrovi sui social a incoraggiare esseri umani di mezza età, alle prese con bilanci sulla sensazione dello spreco di tempo delle loro esistenze, sulle illusioni perdute e su quant’altro resta del loro tempo, quando la china del declino inizia a prendere velocità. Il fiammifero si sta accorciando. Meglio morire di una bella vampata che stare ad aspettare il tempo della conclusione. 

    Un passo oltre e sono nel vuoto. 

    Ma non si può agire sempre nello stesso modo: casa, lavoro, cenetta, pranzetto e poi a nanna, prima telegiornale: crisi economica, crisi energetica, crisi climatica, crisi della crisi della crisi della crisi esistenziale che mi porto, irrisolta da chissà quanto.  

    Un po’ melodrammatico, vero?

    Beh, sì, proprio così.  

    D’altronde, però, se non avessi letto quella frase, non sarei qui, bordo precipizio, a fare bungee jumping. 

    Salta.

    Salta, mi intima il tipo che mi ha imbracato.

    Un attimo… dico io con voce malcerta.

    Va’ che sei al sicuro: i cavi ti tengono. Sai quanta gente è saltata prima di te! 

    V***, penso, tu te ne stai qui, ci sei abituato e dell’altra gente non me ne frega niente. 

    Che ne sai che il cavo non si  sia teso una volta di troppo, che il tizio prima di me non l’abbia inavvertitamente strappato con il suo slancio, vuoi che per il calcolo delle probabilità, tra le migliaia di lanci il mio non sia quello mortale… che cosa ne sappiamo di come accadono le cose che accadono?

    Io vorrei dirlo al tipo che non voglio mica finire sul giornale come L’ennesima povera vittima di una tragica fatalità.

    Chiamiamo fatalità la mancata comprensione dei nessi che abbiano fatto sì che accadano le millantate “fatalità”.

    Mi sono informato, però: c’è lo 0,006% delle probabilità che io muoia, qui e ora, bruciando il mio fiammifero d’un colpo. 

    E mi sono informato anche su quali siano le maggiori cause di morte: addirittura c’è un’unità di misura: il Micromort.

    Ho pensato: minchia, che nome allegrO. Nomen omen! 

    Comunque.

    Mio caro jumper: che io sia qui sul bordo del precipizio lo devo alla fottuta paura dell’oblio e dell’assurdo.

    Tu la fai facile: sei drogato di adrenalina e buttarti da questo precipizio ormai ti ha alzato la soglia del pericolo, ma io? 

    Ma che ne sai che mi costa questo balzo nel vuoto?!!?

    Oddio, ho scoperto che stare seduti mi espone, percentualmente, alla fine temuta più di prendere un aereo o lanciarmi con il paracadute: quindi tecnicamente, il mio culo posato sulla sedia del tinello è stato più a rischio che qui, sul bordo del precipizio. Il che mi rende però conscio dell’idea che se non sono morto in cucina, affettando il pane o facendo scarpetta, beh, vuol dire che finora sono stato immortale come un dio. 

    Quindi, in realtà, sono molto più esposto io, ogni giorno, a pranzo, di te, che te ne stai in piedi, tutti i giorni, qui, bordo precipizio, a guardare tutti ‘sti sfigati, in cerca di una via di uscita al tedio quotidiano e all’insensatezza, sfigati tra cui mi metto anche io. 

    Non so allora chi è a un passa dal suo limite intangibile del Micromort tra me e te: e non lo sai neanche tu. 

    Meglio non saperlo, in ogni caso, non credi, mio caro adrenalinico jumepr?

    Questo gioco della vita ha una sua ironia sottile: in un mai realizzato libretto d’istruzioni si troverebbe questo: gioca pulito, ma le regole potranno cambiare, a caso, nel corso del gioco; impegnati, ma sii sufficiente distaccato da non dare troppo peso a quel che avrai: lo lascerai qui, inevitabilmente; ama, ma non credere dato a te l’amore più di quanto non sia già stato dato ad altri; goditela finché puoi, ma non dissipare eccessivamente; fregatene ma cerca di fare in modo che ti importi; vivi ma sappi che ogni giorno che passa è uno in meno…

    Potrei andare avanti: tutto e il contrario di tut..

    Sento una voce scocciata: Allora, salti o no? C’è gente che aspetta!

    Lo guardo diretto: E che aspetti. Che ne sai che non sarò lo 0.0006%

    Scusa?!, mi fa il tipo.

    Lo guardo ancora più intensamente:

    Prendimi una sedia che mi butto con quella.  Confondiamo le probabilità, incasiniamo il Micromort: vedi mai?!

    Ma che stai dicendo, vieni qui che ti tolgo l’imbracatura… i pazzi non li facciamo saltare!

    Mi viene un’idea.

    Lo afferro.

    Mi butto. 

    Anzi CI butto. 

    Voglio proprio vedere che fa, ora, il saccente.

    Un lampo terrorizzato negli occhi del tipo che mi urla, nei secondi in cui ci fiondiamo giù per il precipizio, mentre sento la gente strillare di terrore: Io non ho mai saltato!

    Gli sorrido.

    Mi rivedo sulla sedia della cucina.

    Mangerò in piedi. 

     

  • Sunyata. parte II

    Comunque, dicevo, in una notte tale, quando ogni cosa pare svanire nella ruota degli eventi, io ero lì.Buio intorno.Silenzio.Qualche traccia del mio passaggio nella cucina, dove le stoviglie erano ancora da riporre: un piatto e un bicchiere mezzo vuoto, le posate, un pezzo di pane sbocconcellato.Appena appena, dalle tapparelle, filtrava una lama di luce.Tutti dormivano. Lo senti quando la no... Altro...

    Comunque, dicevo, in una notte tale, quando ogni cosa pare svanire nella ruota degli eventi, io ero lì.

    Buio intorno.

    Silenzio.

    Qualche traccia del mio passaggio nella cucina, dove le stoviglie erano ancora da riporre: un piatto e un bicchiere mezzo vuoto, le posate, un pezzo di pane sbocconcellato.

    Appena appena, dalle tapparelle, filtrava una lama di luce.

    Tutti dormivano. 

    Lo senti quando la notte è piena. 

    Sembra che il sonno della città avvolga ancor più intensamente le ore profonde, le 2, le 3… l’alba ancora da giungere, quasi non potesse sorgere se non con la nostra volontà di luce, ma essa non è abbastanza da farla anticipare e accelerare e in questo sta parte del nostro sconforto. 

    Io ero lì. 

    Ascoltavo il battito del mio cuore. 

    Pulsava. 

    Ero vivo. 

    Ero vivo?! 

    Ero. Vivo?

    Scorrevano le immagini nella mia mente. Nel proiettore magico dentro il cranio, si affastellavano le immagini del giorno appena trascorso e poi più indietro e ancora e ancora… ricordi così lontani da apparire in super8 b/n e volti e azioni ed emozioni e sogni e rimpianti e ricordi…  Che scherzo del destino: si vuole vivere a lungo: senza tenere conto della pesantezza cui giungono i nostri passati archivi! Scartabellarci dentro diviene gravoso! 

    E lo affermo con ironia: non ci sono che ossimori in queste nostre esistenze!

    Ma torniamo a quella notte: mi domandai: a cosa potrei mai rivolgere la mia attenzione per non sprofondare nei soliti loop?

    A DIO. 

    Non che fosse una implorazione: per quanto si sappia che non vi sia nulla di eccezionale in chi si rivolge nei momenti disperati all’Entità suprema, anche per i più impenitenti e sacrileghi non credenti!  

    Chapeau a chi si abbandona alla preghiera nel momento del disperazione: un conforto può giungere ed è una scommessa quella del credere e del non credere. 

    Io mi trovavo su quel crinale: e perché non giungere a definire qualcosa cui nessuno era giunto prima di me? 

    O forse lo aveva anche già fatto, ma nulla vale quanto il fare in prima persona. 

    Mi domandai, con un tono di voce desto nella mia mente, ad acquietare le immagini che si erano, nuovamente e insistentemente, precipitate a scomporre la mia razionalità: la creazione di ogni cosa proviene dal nulla… no, non dal nulla: dal vuoto. 

    Un dio, o DIO deve averla fatta emergere in quello spazio, ove nulla esiste e non esiste neanche il nulla (mi scuso per l’uso arzigogolato del linguaggio. Quando si compiono tali salti di natura, il linguaggio non tiene proprio! Capisco i mistici: che faticaccia tradurre in parole pensieri che non sono pensieri ma percezioni composite. Mai letto le Upaniśad?!), ovvero è il vuoto.  

    Il vuoto è vuoto: potete voi pensarlo? 

    Lascio un momento per farlo…

    No?

    Allora è proprio il vuoto. 

    È più del nulla cui invece ci si può arrivare per sottrazione; esiste qualcosa, lo tolgo a se stesso: 1-1=0.

    Ma il vuoto è proprio vuoto. 

    Ebbene, da qualche parte, in qualche parte, un dio o DIO deve aver tratto il TUTTO dal Vuoto.

    Specificando:

    DIO+vuoto= ∞

    ECCOLO! 

    Perché il vuoto assume come sua idea che sia un potenziale, secondo la fisica quantistica. (Noi occidentali abbiamo necessità d un aggancio con il mondo scientifico, ricordate?) quello spazio non spazio dove si può estendere la Creazione. 

    E un dio, o DIO, solo dal vuoto può aver dato origine. 

    Dal potenziale intrinseco del Vuoto.

    Ora, lo so che questo concetto emerge anche nella filosofia induista e buddista. Lo so perfettamente. (Qui stavo, quasi per un automatismo mnemonico, copiando e ripetendo quella che mi pareva la logica più concepibile di questa esistenza, dispiegatasi in un certo punto cosmologico.)

    Se poi ci pensate bene, come ci pensai io quella notte, da questa equazione ne consegue che:

    ∞-vuoto= DIO

    E se il vuoto è vuoto:

    ∞=DIO 

    E pure:

    ∞-DIO=vuoto

    Ma DIO deve assumere qualità sempre positive: assume in sé ogni elemento esistente (l’Inferno quindi è comunque parte di DIO, ma questo lo lascerei come tema ai teologi per trovarne una di quelle astruse giustificazioni cui per millenni ci hanno abituati!) 

    E se così fosse davanti a DIO, il meno va commutato in +

    Il che trasforma l’ultima equazione in 

    ∞+DIO= vuoto

    Dal che se ne deduce che il vuoto è comunque un infinito potenziale.

    Che è sia infinito, sia qualità positiva. 

    Il mio timore di scivolare nel vuoto allora non poteva assumere una valenza così angosciosa, così come mi aveva tormentato, per anni, in quelle notti insonni: il vuoto era potenziale e io, una volta concluso il mio tempo, sarei ritornato nel potenziale infinito di DIO e nell’infinito stesso. 

    Potevo dormire serenamente. 

    Così come da allora avvenne. 

    Mi bastava la mia equazione. 

    Mi alzai da dove ero sprofondato nelle mie riflesso, quasi con un balzo, leggero. Tornai in cucina e mi finii il bicchiere mezzo pieno e conclusi con il pane: avevano ripreso sapore.

    Poi mi alzai e me ne andai a dormire.

    Sereno. 

    Spero basti anche a Voi. 

  • Sunyata. parte I

    Signori e signore, buonasera.Benvenuti e benvenute!Stasera siamo qui per dimostrare matematicamente l’esistenza di Dio.Ebbene sì.Non mi sembra inopportuno dire che il tema non è dei più leggeri, né forse dei più attuali. Ma da qualche parte bisogna pure cominciare per uscire dal pantano in cui ci siamo ficcati, insozzandoci con le lordure di questo mondo. Ovunque ci si giri, non p... Altro...

    Signori e signore, buonasera.

    Benvenuti e benvenute!

    Stasera siamo qui per dimostrare matematicamente l’esistenza di Dio.

    Ebbene sì.

    Non mi sembra inopportuno dire che il tema non è dei più leggeri, né forse dei più attuali. 

    Ma da qualche parte bisogna pure cominciare per uscire dal pantano in cui ci siamo ficcati, insozzandoci con le lordure di questo mondo. 

    Ovunque ci si giri, non pare che esista nessuna possibilità di scampo a quel nodo alla gola che ci prende e ci lascia, attoniti e madidi, nel cuore della notte. Chi non ha mai provato quel terrore che non lascia tregua: proviamo a lenirlo con qualche pillola, le raccomandazioni del dottore, l’alcool, le droghe e qualsiasi altro metodo si possa incontrare: basta che finisca. 

    Un respiro: datemi un respiro ancora… e un altro… piano piano, si torna a galla… lentamente… come un qualsiasi Odisseo che trova un pezzo del relitto e, annaspando, riesce a sporgere il capo dagli abissali gorghi che sembrano volerlo inghiottire e rinchiudersi sopra. Inesorabilmente. Ma è in salvo. Per ora. Poi chissà… 

    … 

    Non è forse così?

    Ma non sono di certo qui a terrorizzarvi.

    Come dicevo poco anzi, ho io la soluzione: la dimostrazione matematica all’esistenza di Dio. 

    Non che non sia stata tentata prima una dimostrazione logica all’esistenza di Dio: Gödel vi arrivò, inanellando connessioni logiche. Ventotto passaggi per giungere alla formulazione conclusiva. E ancor prima, il formidabile Leibnitz. 

    Il che risulta prodigioso e incontrovertibile. 

    Di certo i logici matematici hanno sempre quella capacità estrema di astrazione che nella quotidianità, ahimè, non è forse poi così fruibile.

    “Caro, passami il sale…”

    “Intendi l’oggetto in sé, ovvero il cloruro di sodio o il suo contenitore? Ma tra quelli che abbiamo in cucina, specificamene la forma, non prima di avermi definito a quali strutture formali tu faccia riferimento… cara, dove stai andando… ma stai facendo le valigie??? Vuoi forse dirmi qualcosa???”

    Insomma, matrimoni finiti ancor prima di condividere le pietanze. 

    Permettetemi, quindi, dopo questa celia, una breve digressione sulle definizioni che si attribuiscono a Dio: qualità positiva per eccellenza, summa di ogni cosa, pensiero non pensabile, ente non dimostrabile, insondabile essenza e continuo divenire, ineffabile espressione del desiderio infinito di esistere ed essere…

    E come ben saprete ogni religione ne ha voluto dare una propria definizione che lo avvicinasse a noi, sue misere creature.

    L’Altissimo, il Misericordioso, Adonai, Brahman e via a seguire. 

    Di certo, ogni religione ha declinato per tradizione storia e culturale un dio che fosse a propria immagine e somiglianza. Talvolta distaccandolo dalla natura umana, trascendendo e ponendosi oltre. 

    In un oltre che noi non possiamo mei definire ma solo cogliere per brevi istanti…

    Insomma, al solito, solo i mistici sembrano saper intendere, seppur per frazioni d’istanti abbacinanti, la vera natura del divino.

    E fin qui, andrebbe anche tutto bene, se si restasse nell’ambito della Fede. 

    Ma noi siamo uomini e donne del mondo occidentale: necessitiamo di dimostrazioni e di certezze.

    Io credo, per una certa diffidenza rispetto al passato: a furia di tagliare teste e di ammazzarci senza pietà, tra guerre di religione e conflitti di potere per un amen o un credo, non possiamo certo accontentarci di risolverci nel suadente misticismo di certa parte del mondo: siamo occidentali, suvvia!

    Che mai ci mettiamo a fingere di credere in qualche afflato mistico?

    Suvvia, Cartesio ci avrà pure insegnato che siamo pensiero e razionalità??

    Quindi giungo al momento cardine.

    La dimostrazione matematica dell’esistenza di DIO.

    Non vi nasconderò le mia emozione a proporre per la prima volta al mondo, a Voi, qui riuniti, ma è necessario e indispensabile spiegarvi come vi sia giunto. 

    Era una notte buia e tempestosa…

    Pardon, ho letto molto i Peanuts!

    Comunque era davvero una notte buia e tempestosa, non per le condizioni atmosferiche, bensì per il mio stato d’animo.

    Noi uomini occidentali, spesso, ci confrontiamo con questa sensazione di vuoto interiore, di mancanza di appigli, di scarsa speranza nel futuro: vogliamo sempre lasciar traccia nel mondo. Non possiamo accontentarci di essere come animali, la cui carcassa divenga infine il solo bianco scheletro, per rientrare nel corso della Natura. Lo splendore di cui ci ammantammo non può rimanere relegato nella memoria di pochi o poche che, inevitabilmente, verrano a loro volta divorati dal Tempo, l’unica divinità davvero ineludibile. E a cui dovremmo inchinarci con maggior fervore, di certo senza risposta, ma perlomeno per insegnarci l’umiltà. E l’unicità nostra.

  • Svevo approverebbe. Parte II

    Ci sono scuse e scuse.   In solitudine, la sigaretta fa compagnia: non sai che fare mentre sei con te stessa? Ne accendi una. Una piccola scarica di dopamina e lo stress pare diminuire. Anche se sai che non è così. È una schiavitù, cui ci si lega per un’assenza. Lo sai. E sai anche che non farà bene alla tua pelle, che ti verrà prima il fiatone, che spenderai (perchè di sol... Altro...

    Ci sono scuse e scuse.   

    In solitudine, la sigaretta fa compagnia: non sai che fare mentre sei con te stessa? Ne accendi una. Una piccola scarica di dopamina e lo stress pare diminuire. Anche se sai che non è così. 

    È una schiavitù, cui ci si lega per un’assenza. Lo sai. E sai anche che non farà bene alla tua pelle, che ti verrà prima il fiatone, che spenderai (perchè di soldi se ne spendono e ti accorgi che stai esagerando quando, a corto di quattrini, preferisci comprarti un pacchetto che un panino…) e inizi a prendere un ritmo accelerato, una dietro l’altra, se davvero ti sembra che fumare sia uno dei pochi piaceri rimasti, sei perfettamente consapevole che allora non è più un piacere ma una dipendenza, ma che ci vuoi fare? Di qualcosa si deve pur morire. Magari non in un set orrendo come quello della foto-inutile deterrente sul tuo pacchetto, si spera…

    Ho smesso di fumare, dico orgogliosa a chi non sento o non incontro da un po’ di tempo. Uh, che brava! E mi godo il complimento. 

    Ma è una mezza verità. Non ho una forza di volontà così titanica da riuscire in un solo colpo a domare il mio nucleus accumbens. Ricompense e dipendenze si situano lì, nel nostro cervello: difficile comunicare a impavidi e imperterriti neuroni: la sigaretta mi/ci fa male, smettete di rilasciare dopamina a ogni boccata. Punto e basta. 

    No, dovevo fornire una motivazione valida, anzi, meglio, una ricompensa più che allettante, seppur procrastinata in un tempo da definirsi, e me la sono trovata. E ho adottato un palliativo nell’attesa. Come una sorta di Bella addormentata nel bosco che attende, assopita, avvolta e protetta dalla volute di fumo del drago, ora mi avvolge il vapore delle e-cig. E una motivazione. Mi ero stancata di aver quel sapore aspro in bocca: come si fa a baciare qualcuno così, temendo di essere scambiata per un posacenere?

    Un dettaglio. Minimo, infinitesimale rispetto all’insorgenza di patologie gravi, alla mancanza di fiato nella corsa o nel nuotare, alle arterie ristrette…

    Ma nella vita, oltre all’esserci scuse e scuse, ci sono anche ragioni deboli, non sempre sono necessari altri ideali  per vivere decorosamente: anche dietro certe prese di posizione che paiono titaniche si nascondono ragioni ben più umane: paure, timori, il desiderio di quiete, oppure il piacere di mantenere l’immagine del proprio ego, la bella figura e la bella faccia o lo slancio nel piacere dell’azione…

    Io ho scelto una motivazione, debole quanto si vuole, un po’ infantile, da fiaba, per l’appunto, e mi son lasciata convincere: il nucleus accumbens ha accolto, evidentemente, di buona grazia la mia istanza e ora mi trovo avvolta da una nube di vapore.

    E, quasi in una fiaba,  questo vapore ha un profumo diverso. Dolce, rispetto all’acre sentore del fumo di sigaretta. 

    È, per l’appunto, il mio palliativo, lo so perfettamente. Non ci si può mentire dopo 20 sigarette al giorno per 25 anni! 

    Probabilmente, assumo anche nicotina in quantità maggiore: però non ho più il problema del fumo passivo e di quell’odore dolciastro, maleodorante, nelle stanze e sui vestiti; questo vapore, denso e morbido, ha un aroma vago, lieve, talvolta di caramello e di torta appena sformata. 

    Ora sono in sala, i miei due gatti sonnecchiano accanto a me e non sembrano curarsi del mio micro narghllè: ho ancora una cortina (quella del mio drago) a nascondermi dal mondo e una scusa per aspettare qualcuno in un posto strategico. O per intavolare una discussione, lasciandomi sedurre dalla quiete che mi induce l’aspirare e il buttare fuori, a volte dal naso come un drago, quel filo di fumo. 

    Talvolta è necessario esser misericordiose con se stesse: la vita è sufficientemente complessa e spigolosa da non provare il desiderio di attutirne gli urti con piccoli stratagemmi. 

    Ognuno porta a casa la propria giornata come può. È molto umano. E mi piace. 

    Così come mi piace ancora fumare. Che ci posso fare? Psicanaliticamente, vorrà pur dire qualcosa. Ci sono fior di libri su questo aspetto dell’essere umano, ma non li ho mai avvicinati, tantomeno sfogliati. 

    Non ho voglia di guastarmi il mio momento di relax e la mia ancora di salvezza con troppe interpretazioni. 

    Mi lascio avvolgere pienamente dal vapore alla vaniglia, ora, scrivendo e punteggio i passaggi con nuvolette dolci che tu, che leggi, non potrai vedere ma forse intenderai dal ritmo delle immagini, assecondanti il mio lieve aspirare e poi rilasciare, questo mio piccolo piacere.

    In dettagli sta forse sta il segreto di tutto. 

    La voluttà di un vizio, e una ragione, seppur debole, per assecondarlo senza ammazzarsi anzi tempo.

    Permane, comunque, il gesto nella sua valenza trasgressiva.

    Il gusto del brivido delle sigarette fumate di nascosto, in un luogo vietato. Di quelle di corsa, delle maledette “tutto e subito”, delle altre pre e post quel che vuoi, della pausa e dell’attesa, del Vado fuori un attimo, Hai da accendere? Me ne offri una? Me ne fumo un’altra mentre aspetto… 

    Sigarette a creare micro luminescenze esistenziali.  

    Una bella scusa?

    Di certo. 

  • Svevo approverebbe. Parte I.

    Del fumare.Mi piaceva fumare. Non posso negarlo. Mentirei.Momento sociale e pausa riflessiva, così spesso viene definito questo atto, piacevole e dannoso.Quante volte ciò che più attrae è fonte di maggior danno?Pur conoscendo questa doppia valenza, mi ha sempre dato gusto accendermi la sigaretta, sentirne sfrigolare la carta e aspirare  il primo tiro. Quella brace chi si accendeva e ... Altro...

    Del fumare.

    Mi piaceva fumare. Non posso negarlo. Mentirei.

    Momento sociale e pausa riflessiva, così spesso viene definito questo atto, piacevole e dannoso.

    Quante volte ciò che più attrae è fonte di maggior danno?

    Pur conoscendo questa doppia valenza, mi ha sempre dato gusto accendermi la sigaretta, sentirne sfrigolare la carta e aspirare  il primo tiro. 

    Quella brace chi si accendeva e la prima boccata, aspra, netta, giù per la gola. Il soffiare fuori il fumo, lentamente o con rabbia, rilassata o distratta. Una nube a circondare e a confondersi con le parole e i pensieri. 

    Concorderete con me che il gesto ha un che di decadente e perduto.  

    Oltre a essere un piacere in 4, 5 minuti, non di più: breve ma intenso, come certi eventi della vita che punteggiano, incandescenti, le nostre esistenze. 

    Mi sembrava che fumare conferisse anche un’aria più “intellettuale” ai miei discorsi: non so perché, ma ho sempre associato la sigaretta al pensiero. Forse perché si esauriva in fretta e le sue volute si diffondevano ovunque, come certe idee. 

    E poi non posso certo rinnegare il suo aspetto sociale. Non si è mai visto un fumatore lamentarsi di un non fumatore: così afferma qualcuno, in modo ironico. Eppure è proprio vero che esista una valenza sociale in questo atto. 

    Andiamo a fumarci una sigaretta? Modo semplice per attaccare bottone, per coinvolgere, per creare anche solo una breve complicità nel vizio, come lo si sarebbe chiamato una volta. 

    Non sai poi come trattenere qualcuno nella conversazione?: te ne accendi un’altra e quei 4, 5 minuti ti vengono concessi dal tuo interlocutore o interlocutrice e chissà mai che il discorso si prolunghi ancora, naturalmente, onde evitare intossicazioni malsane!

    Il fumo, infatti, è un piacere poco salutare: si sa. 

    Per tacitarsi la coscienza, il monopolio di Stato, da qualche anno, ha obbligato le case produttrici a inserire foto orripilanti. Ma, quelle immagini sui pacchetti e quelle scritte non hanno mai funzionato da deterrente per me. Erano altri quelli nelle foto: vuoi che succeda a me? Bastava poi non guardare. Alcune poi erano quasi comiche nel loro intento didascalico: persone distese (evidentemente truccate in un set asettico e dalle luci raccapriccianti) sul letto di morte, i familiari disperati e tu , magari alla fermata dell’autobus, quando è inevitabile accendersene una per far scorrere il tempo in modo meno frustrante, ti giravi il pacchetto tra le mani: cazzo, non bastava la fatica del vivere e l’autobus in ritardo? Anche il senso di colpa! Poi sono passati, per l’appunto. alle foto dei malati: tanto che toccava nascondere il pacchetto in scatoline idiote per evitarsi l’angoscia. Che comunque non funzionava e non funziona. Non avrei certo smesso per quello…

    Quante ore di attesa e momenti di pausa sono avvolti nei miei ricordi dalla nube di fumo che creavo mentre scrivevo, fuori sul balcone, incastrata in una seggiolina minima, quando pensavo a una idea, a una frase, quando il momento era difficile e quando avevo solo voglia di stare con me stessa, nell’intimità di quella cortina blu azzurrina, quando chi doveva arrivare non giungeva, quando me ne andavo in bicicletta, quando passeggiavo per le strade di Milano, quando ero allegra e quando ero triste, non importava: pioggia, sole, neve o temporale (che sensazione sublime la pioggia scrosciante, il profumo dei prati bagnati e i filamenti attorno a me, il vento a scompigliarli), l’accendersi difficoltoso, controvento nelle raffiche della tramontana di febbraio e l’arrossamento delle dita strette attorno a quel tubicino, in pieno inverno, la ricerca affannosa dell’accendino (l’inferno dei fumatori sta in una stanza piena di pacchetti, ma priva di accendini: vorrei ma non posso! Ahi ahi ahi…! Il dramma dell’essere umano in un’immagine!) nella borsetta o in tasca. Quanti ne avevo, anche di scorta, di tutti i colori e di tutte le dimensioni, perché il fumatore o la fumatrice non può vivere senza. Si giunge a fare calcoli sulla propria forza di volontà (spesso ci si accorge che è inferiore a quel che si spera per sé. Ma la tolleranza nasce anche così: una volta esperito il proprio limite, come non giustificare l’altro nel constatarne la medesima debolezza? Diffido sempre degli integralisti: il loro rigore ha un che di malsano, di inumano. E so che nascondono segreti ben più terribili.)

    Ne mancano due alla fine del pacchetto: reggerò quante ore? Si giunge così a calcolare quanto tempo si può stare senza, procrastinando il piacere a quando ce la si potrà accendere: una succursale minuscola di  paradiso, fossero anche due sole boccate di corsa, rabide e dannosissime. 

    Chi non alimenta nessun vizio con il proprio desiderio, infatti, non può capire queste apparenti cadute di stile, perché così si rivelano, ma non lo sono. Come la ricerca affannosa del tabaccaio aperto nella notte: me ne ricordavo uno, l’altra sera… ed ecco l’insegna, faro acceso nella nebbia ai naviganti disperati! Non ci sono le mie solite… mmmmmh, mi dia quel che ha, va bene lo stesso! (Anche se sai che ti procureranno un mal di testa formato gigante: l’importante è avere quella scatolina in tasca. Il resto, si vedrà.) 

    A volte, una sigaretta è un’ottima scusa per una fuga per prendere aria, fuggendo situazioni noiose o un’eccellente via per incontrare chi si spera di vedere. Un non fumatore cosa potrebbe accampare come giustificazione: vado a guardare il prato perché ho notato due nuove margheritine? Mi piaceva il sole oggi… toh guarda, la temperatura mi pareva differente all’interno… perché sono qui?! Perché mi piace stare in questo corridoio vuoto, deserto e desolato, a meditare…

    E invece una sigaretta è un alibi perfetto, no? 

    Ci sono scuse e scuse.  

  • La Pizia. Parte II

    Il vaticinio doveva trovare la sua prova nel reale (La Sfinge non si gettò dalla rupe, essere alieno e straordinario. Si era allontanata dopo la risposta, rifugiando in antri oscuri. In spregio alle umani genti: compiuto era stato il ruolo destinatele dal Fato). Edipo non doveva incontrare scampo al futuro, seppure fosse stato illuso di esservi sfuggito.Il Dio non ammette deviazioni al ... Altro...

    Il vaticinio doveva trovare la sua prova nel reale 

    (La Sfinge non si gettò dalla rupe, essere alieno e straordinario. Si era allontanata dopo la risposta, rifugiando in antri oscuri. In spregio alle umani genti: compiuto era stato il ruolo destinatele dal Fato). 

    Edipo non doveva incontrare scampo al futuro, seppure fosse stato illuso di esservi sfuggito.

    Il Dio non ammette deviazioni al suo volere: in un modo o nell’altro è indispensabile e necessario l’avverarsi di quanto profetizzato. 

    Altrimenti che figura ne farebbe? 

    Così, stritolato dalle parole pronunciate in questa grotta, Edipo trovò il suo destino confermato. 

    La Pizia di allora rise nella grotta: il contatto con gli dei consuma la pietà per le umane sorti. 

    Voi non sapete quante di noi si consumarono la mente qui, al buio, abbagliate dal divino: alcune fuggivano, rese folli, altre ne morivano e altre ancora, le più fortunate o le meno sensibili, impararono a provare piacere in quel potere che guida gli Olimpici., lambendone le vesti, suggendo, avide, microscopiche stille di ambrosia.  

    Il futuro è una narrazione sottile che si rivela a noi in immagini e sussurri. È una rete immane in cui se, a voi, è visibile la trama, l’ordito spetta ineluttabilmente agli dei. Basterebbe soltanto sfiorare uno di quei fili e lo scenario si articolerebbe secondo altre, rinnovate, possibilità.

    Se solo poteste innalzarvi di qualche centimetro da terra, lo vedreste anche voi. 

    Ma non avete un tripode a sorreggervi o un dio a elevarvi.

    Uomo, sei certo di quel che domandi?

    Uomo, sei sicuro che ora sarai libero?

    Uomo, saprai tollerare il non esser libero?

    Ora l’ingresso al tempio verrà sbarrato.

    Ovviamente, lo sapevo. 

    Lo sapevamo da tempo immemore. 

    Altrimenti quale potere oracolare avremmo posseduto mai? 

    Non posso dire che mi dispiaccia: non avrò bisogno di certo di quella grotta per vivere la mia esistenza. 

    Il contatto con il dio consente di trattare il proprio destino e io so quale sarà il mio. 

    I templi, ormai muti gli oracoli, saranno chiusi nel migliore dei casi o distrutti, in nome di un solo simbolo che andrà riassorbendo il molteplice, rinnegandone la lussureggiante potenza.

    Questa nuova religione viene a soppiantare la nostra umana, innata, inquietudine con la certezza di un futuro, seppure molto distante e impalpabile,  di pace e amore. 

    Ben venga. 

    Gli uomini si fanno sempre più fragili. E, lo devo ammettere, la  fiducia dei seguaci di questa nuova (arcaica ai miei occhi) fede nel libero arbitrio, in un primo tempo, mi affascinò: suadente pensare che vi sia spazio alla propria volontà e che esista la scelta.

    Li ascoltavo, avvolta, non conosciuta, nel mio peplo: Sarete liberi! Affidatevi al nostro Salvatore!

    Contrapposti orizzonti vanno delineandosi. 

    Al fato, la libera scelta.

    Al crudele sorriso dell’inconoscibile, l’insondabile amore.

    Alle sfumature umane degli olimpici, ormai trincerati dietro un misterioso e prolungato silenzio, una potenza misericordiosa, insondabile. 

    Altrettanto silente. 

    Ne fui quasi attratta… 

    No, mi spiegai, non era tempo per me di delegare alla vaga speranza il taglio netto di Atropo.

    Perché abbandonare per un manicheismo, appena appena velato d’amore, il divino che mi aveva abitato per così lungo tempo?

    Il mio dio già mi aveva sussurrato, in una notte d'inquietudine, lui ed io, soli, in attesa che i suoi stridenti suadenti suoni si allontanassero, quale fato mi apparteneva. 

    Libera scelta o meno, io l’avrei percorso. 

    Memore di Edipo, avrei forse potuto compiere anche io la mia strada, ma ben presto mi sarei resa conto che chi tirava le mie fila stava solo allungando le fila che mi vincolano, verso l’ineluttabile destino, illudendomi.

    Uomo, cosa domandi al domani?

    Uomo, sai sciogliere l’enigma del responso del dio?

    Uomo, sai cogliere nella tua stessa domanda la risposta che non si manifesta?

    Ingenui. 

    Alcuni erano davvero ingenui. 

    I servitori li facevano passare, perché toccava far quadrare i conti del tempio. Avevamo, le mie sorelle ed io, memorizzato risposte usuali a domande banali. Mi ama? Come sarà il raccolto? È ora di intraprendere quel viaggio? 

    Non si disturbava il dio per questi miseri quesiti. Anche se, talvolta, questi faceva capolino con quel sussurro che accapponava le meningi, solo per irridere quegli stolti. Avrebbero fatto meglio a dar retta ai loro prossimi, al loro istinto ma la parola del dio era l’unica che sapesse placare le loro incertezze. 

    Non compresero mai, nessuno comprese, che disturbare la mente di un dio provoca alterazioni nel fato degli uomini, nel tessuto di eventi ramificati che li circonda. È una perturbazione tale degli equilibri permettere l’accesso diretto al sacro nella quotidianità che non può non costare, e che ineluttabilmente altererà per sempre la vita dell’uomo che richiede. 

    Gli stolti cercavano consolazione ed ottennero la moltiplicazione e l’accelerazione del loro destino. 

    Lo mutarono quasi da soli, con le loro scellerate interpretazioni. 

    Non si interpreta il divino, lo si esegue senza nessuna nozione cosciente. Avrebbero fatto meglio a spogliarsi e a partecipare a un corteo dionisiaco: avrebbero denudato la loro mente dei vari orpelli che la rafforzano in una vacua identità per liberarsi dalla scelta, iniziando a seguire il loro fato senza corrispondenza di attaccamento. 

    E invece no, me li trovavo davanti, tremebondi, già consci della risposta e ignari a loro stessi. Talvolta non serviva neanche il dio: bastavamo noi, con la saggezza delle nostre consorelle che ci scorreva nel sangue da generazioni, memorie e memorie che si proiettavano nella nostra mente a ricercare la formula adatta che usciva, in un grido da raggelare il sangue, improvvido e improvviso. Sbiancavano in volto: era la rivelazione del dio che li pietrificava; comprendevano di aver commesso un fatale errore. Non avrebbero trovato serenità nella risposta, ma solo l’orrore della mente umana sfiorata dall’incommensurabile. 

    Io sorridevo. 

    La loro infima tracotanza li aveva puniti.

    Uomo, chiedi a una donna ciò che già conosci perché la profondità della tua stessa voce non può reggere il suono delle proprie parole.

    Uomo, chiedi a un dio per timore della tua stessa risposta.

    Uomo, domandi al di fuori di te stesso perché dentro di te il buio è più spaventoso che nell’antro dove ora ti trovi. 

    Si concludeva il mio compito, tornavo alle mie stanze. Mi svestivo e l’acqua tiepida mi accoglieva. Mi stavo spogliando del dio, ripulendomi nel grembo liquido primordiale. Faceva capitolino, talvolta, sulla mia pelle, il luccichio delle scaglie di Pitone, la madre serpente che il mio dio millantava di aver trafitto. Non era mai accaduto. I misteri del fato si nascondono sempre tra le mani delle donne che generano e sacrificano e  sollevano la polvere dagli altari e danzano alla luce delle fiamme nelle notti di luna piena e consacrano il loro ventre nelle grotte o sotto le fronde dei frassini alla forza generatrice della terra che sola, in un immane impulso, partorì sé da sé stessa. 

    In quell’acqua salmastra, racchiusa negli anfratti sotto il tempio, si mescevano le lacrime e i flussi e le maree e il mistero rigenerante della vita e il tempo e il residuo del tempo.

    La voce del dio reclamava il suo posto, lo percepivo acquattato nell’ombra, l’arco teso, pietrificato nel gesto, ma in quei momenti solo la Madre poteva raccontare le storie del mondo. Io, cullata da quel mormorio simile alla marea, in un’oscurità profonda come quella della crepa che si insinuava sotto il tripode, mi addormentavo. Non ricordavo altro che frammenti di quei sogni imperiosi e sublimi. Il dio tornava, alla luce del giorno e nel tempio avrebbe cercato di scovare Pitone, per concludere il suo compito. Invano. Mi avrebbe ancora attraversato con la sua straniante voce, credendo di aver soppiantato la Madre. Illuso. 

    Tutto appartiene alla Madre. 

    Anche il dio. 

    Uomo, dove ti nasconderai quando avrai la tua risposta?

    Uomo, come potrai guardare i tuoi conoscendo la tua via?

    Uomo, chi ti ascolterà più temendo che tu conosca già le risposte?

    L’imperatore chiude la strada al tempio. 

    Fulgida si apre la via al nuovo dio.

    Mi domando chi ascolterà più le voci tra le foglie stormire e chi vorrà immergersi nelle grotte per riprovare il terribile atto della nascita che porta a compimento il fato prescritto… 

    Sciocche fole di donna, inutili questioni umane. 

    Al divino non importa nulla di noi. 

    È. 

    La sua sostanza: inviolabile.  

    Non sparirà di certo per aver cambiato volto, interpreti e forme: il sorriso enigmatico del dio è sempre là. 

    Su una croce o nel profondo del suolo, in cielo o su un monte, negli abissi del mare o su un altare, che importa?

    Uomo, tu sei l’ultimo al cospetto della Pizia: domanda. 

    Ma che il tuo parlare sia breve, il tempo si sta chiudendo su di noi. 

    Uomo, taci? Qualcosa allora è stato compreso. 

    Il silenzio propizia il sorgere degli astri. Una volta giunse qui un uomo che, solo, di tale titolo potè vantarsi. Ebbe per noi l’unica domanda che possa dirsi tale e attese la risposta con lo stesso spirito del fanciullo innanzi a un dono atteso a lungo. 

    Per lui, la parola del dio si fece saetta. 

    Conosci te stesso. 

    Non c’è altro.

    Anche al tuo meschino silenzio.

    Vattene ora.

    Il dio sta scivolando sotto altri nomi e altri volti. 

    Imperituro. 

    Insondabile.

    Eterno.

    Forse, rivolgendo il tuo volto a uno pecchio d’acqua, lo riconoscerai.

    Nel suono del tempo che maestoso si distende in toni senza fine, la sua parola ti giungerà limpida.

    Ma nessun’altra Pizia potrà spiegarti l’ambiguità del tocco con il divino.

    Le selve mi attendono.

    La Sfinge mi attende. 

    Avremo molto di cui discutere entrambe: abbiamo vissuto di enigmi e in enigmi si rivela la Verità.

    Avremo l’eternità dell’oblio a cullarci. 

  • La Pizia. Parte I

    Questa è una storia che non ha una sua conclusione.Un racconto breve, a una voce sola. In fondo, parliamo solo e sempre con noi stessi: comunicano i lati manifesti con quelli celati.L’altro è solo specchio all’io. Non esiste ragione per non affermare che questo racconto abbia avuto un solo mittente e un unico destinatario.Me stessa.Anche se le volute di fumo, nell’oscurità, da q... Altro...

    Questa è una storia che non ha una sua conclusione.

    Un racconto breve, a una voce sola. 

    In fondo, parliamo solo e sempre con noi stessi: comunicano i lati manifesti con quelli celati.

    L’altro è solo specchio all’io. 

    Non esiste ragione per non affermare che questo racconto abbia avuto un solo mittente e un unico destinatario.

    Me stessa.

    Anche se le volute di fumo, nell’oscurità, da quella crepa nella roccia, perseguitano le mie notti.

    Non esiste inizio. 

    A noi piace credere che sia così: il primo sguardo, la prima parola, il primo sorriso.

    Non ce ne accorgiamo, ma le premesse per quell’incipit esistevano dapprima. Minuscoli segnali e impercettibili sensazioni. Dettagli che, se correttamente interpretati, non darebbero scampo alla sorpresa. Ma chi non desidera essere rivestito dall’aura della Bellezza, come fosse un dono degli dei, quale ricompensa per millantati crediti di bontà?

    Avevano ragione gli antichi che temevano tutto ciò: lo splendore accecante del sacro cela in sé l’ombra della voragine primordiale. 

    Attento a quel che desideri: potrebbe avverarsi.

    Nell’antro da cui per millenni le mie consorelle mi hanno preceduto a costruire destini agli uomini che venivano a consultarle, io, ultima, ho desiderato conoscere la forza del Fato.

    Il vaticinio doveva trovare la sua prova nel reale 

    (La Sfinge non si gettò dalla rupe, essere alieno e straordinario. Si era allontanata dopo la risposta, rifugiando in antri oscuri. In spregio alle umani genti: compiuto era stato il ruolo destinatele dal Fato). 

    Edipo non doveva incontrare scampo al futuro, seppure fosse stato illuso di esservi sfuggito.

    Il Dio non ammette deviazioni al suo volere: in un modo o nell’altro è indispensabile e necessario l’avverarsi di quanto profetizzato. 

    Altrimenti che figura ne farebbe? 

    Così, stritolato dalle parole pronunciate in questa grotta, Edipo trovò il suo destino confermato. 

    La Pizia di allora rise nella grotta: il contatto con gli dei consuma la pietà per le umane sorti. 

    Voi non sapete quante di noi si consumarono la mente qui, al buio, abbagliate dal divino: alcune fuggivano, rese folli, altre ne morivano e altre ancora, le più fortunate o le meno sensibili, impararono a provare piacere in quel potere che guida gli Olimpici., lambendone le vesti, suggendo, avide, microscopiche stille di ambrosia.  

    Il futuro è una narrazione sottile che si rivela a noi in immagini e sussurri. È una rete immane in cui se, a voi, è visibile la trama, l’ordito spetta ineluttabilmente agli dei. Basterebbe soltanto sfiorare uno di quei fili e lo scenario si articolerebbe secondo altre, rinnovate, possibilità.

    Se solo poteste innalzarvi di qualche centimetro da terra, lo vedreste anche voi. 

    Ma non avete un tripode a sorreggervi o un dio a elevarvi.

    Uomo, sei certo di quel che domandi?

    Uomo, sei sicuro che ora sarai libero?

    Uomo, saprai tollerare il non esser libero?

    Ora l’ingresso al tempio verrà sbarrato.

    Ovviamente, lo sapevo. 

    Lo sapevamo da tempo immemore. 

    Altrimenti quale potere oracolare avremmo posseduto mai? 

    Non posso dire che mi dispiaccia: non avrò bisogno di certo di quella grotta per vivere la mia esistenza. 

    Il contatto con il dio consente di trattare il proprio destino e io so quale sarà il mio. 

    I templi, ormai muti gli oracoli, saranno chiusi nel migliore dei casi o distrutti, in nome di un solo simbolo che andrà riassorbendo il molteplice, rinnegandone la lussureggiante potenza.

    Questa nuova religione viene a soppiantare la nostra umana, innata, inquietudine con la certezza di un futuro, seppure molto distante e impalpabile,  di pace e amore. 

    Ben venga. 

    Gli uomini si fanno sempre più fragili. E, lo devo ammettere, la  fiducia dei seguaci di questa nuova (arcaica ai miei occhi) fede nel libero arbitrio, in un primo tempo, mi affascinò: suadente pensare che vi sia spazio alla propria volontà e che esista la scelta.

    Li ascoltavo, avvolta, non conosciuta, nel mio peplo: Sarete liberi! Affidatevi al nostro Salvatore!

    Contrapposti orizzonti vanno delineandosi. 

    Al fato, la libera scelta.

    Al crudele sorriso dell’inconoscibile, l’insondabile amore.

    Alle sfumature umane degli olimpici, ormai trincerati dietro un misterioso e prolungato silenzio, una potenza misericordiosa, insondabile. 

    Altrettanto silente. 

    Ne fui quasi attratta… 

    No, mi spiegai, non era tempo per me di delegare alla vaga speranza il taglio netto di Atropo.

    Perché abbandonare per un manicheismo, appena appena velato d’amore, il divino che mi aveva abitato per così lungo tempo?

    Il mio dio già mi aveva sussurrato, in una notte d'inquietudine, lui ed io, soli, in attesa che i suoi stridenti suadenti suoni si allontanassero, quale fato mi apparteneva. 

    Libera scelta o meno, io l’avrei percorso. 

    Memore di Edipo, avrei forse potuto compiere anche io la mia strada, ma ben presto mi sarei resa conto che chi tirava le mie fila stava solo allungando le fila che mi vincolano, verso l’ineluttabile destino, illudendomi. 

    Uomo, cosa domandi al domani?

    Uomo, sai sciogliere l’enigma del responso del dio?

    Uomo, sai cogliere nella tua stessa domanda la risposta che non si manifesta?

    Ingenui. 

    Alcuni erano davvero ingenui. 

    I servitori li facevano passare, perché toccava far quadrare i conti del tempio. Avevamo, le mie sorelle ed io, memorizzato risposte usuali a domande banali. Mi ama? Come sarà il raccolto? È ora di intraprendere quel viaggio? 

    Non si disturbava il dio per questi miseri quesiti. Anche se, talvolta, questi faceva capolino con quel sussurro che accapponava le meningi, solo per irridere quegli stolti. Avrebbero fatto meglio a dar retta ai loro prossimi, al loro istinto ma la parola del dio era l’unica che sapesse placare le loro incertezze. 

    Non compresero mai, nessuno comprese, che disturbare la mente di un dio provoca alterazioni nel fato degli uomini, nel tessuto di eventi ramificati che li circonda. È una perturbazione tale degli equilibri permettere l’accesso diretto al sacro nella quotidianità che non può non costare, e che ineluttabilmente altererà per sempre la vita dell’uomo che richiede. 

    Gli stolti cercavano consolazione ed ottennero la moltiplicazione e l’accelerazione del loro destino. 

    Lo mutarono quasi da soli, con le loro scellerate interpretazioni. 

    Non si interpreta il divino, lo si esegue senza nessuna nozione cosciente. Avrebbero fatto meglio a spogliarsi e a partecipare a un corteo dionisiaco: avrebbero denudato la loro mente dei vari orpelli che la rafforzano in una vacua identità per liberarsi dalla scelta, iniziando a seguire il loro fato senza corrispondenza di attaccamento. 

    E invece no, me li trovavo davanti, tremebondi, già consci della risposta e ignari a loro stessi. Talvolta non serviva neanche il dio: bastavamo noi, con la saggezza delle nostre consorelle che ci scorreva nel sangue da generazioni, memorie e memorie che si proiettavano nella nostra mente a ricercare la formula adatta che usciva, in un grido da raggelare il sangue, improvvido e improvviso. Sbiancavano in volto: era la rivelazione del dio che li pietrificava; comprendevano di aver commesso un fatale errore. Non avrebbero trovato serenità nella risposta, ma solo l’orrore della mente umana sfiorata dall’incommensurabile. 

    Io sorridevo. 

    La loro infima tracotanza li aveva puniti.

    Uomo, cosa cerchi?

    Uomo, cosa domandi al Dio che ogni cosa conosce?

    Uomo, saprai sopportare il vero? 

    Uomo, saprai attendere che il tuo destino ti sia svelato? 

    Venivano qui, con aria supplice e domandavano. 

    Non credevo fossero così sciocchi: conoscere il proprio destino presuppone che non ci sia libertà. 

    Allora meglio il pastore che conduce le sue capre in montagna, ignaro della pietra che scivolerà sotto il suo piede a sbilanciarne il passo e ringrazierà la sua atletica corporatura se quell’inciampo non sia divenuto passo nel vuoto. Non certo benedirà il vaticinio di un dio se la sua vita, simile a quella delle sue capre, sulle sporgenti rocciose, non avrà che come risultato uno spavento. Poteva accadere o no. Sono i rischi del mestiere.

    Gli altri, quelli che con le loro supplicanti parole arricchivano il tempio e la città di Delfi, pensavano di poter sostenere il futuro. 

    Si arrogavano il diritto di governarlo, una volta udite le nostre parole.

    Sciocchi.Avete visto come è andata a finire con Edipo: morigerato e tremebondo, è finito tra le lenzuola della madre, divenendo padre e fratello ai suoi stessi figli. 

    E da questa tragica farsa, pagine di letteratura e psicanalisi si sono accumulate nei secoli. 

    Suvvia, la trama risulta farraginosa con tutti quelli che sapevano e tacquero, per poi un giorno, improvvisamente, rivelare il segreto “gelosamente” custodito e ordito dal Fato. 

    … già, il segreto…. segreto… 

    In fondo, però, Edipo poteva non sapere… 

    Già: il malcapitato non sarebbe stato in grado di ricordare il grembo della madre.

    Ma Giocasta: come fece a non riconoscere nei talloni forati, in quei segni, la carne della propria carne? 

    Persino, Euriclea, umile nutrice, riconobbe lo scaltro Odisseo sotto mentite spoglie da una sola cicatrice. 

    Turpe pensiero: sostituire il vecchio al giovane acceca e stritola nel desiderio di infiammate notti di passione. 

    Poco importa il nome e la provenienza.

    Forse Giocasta così mise a tacere la sua epifania.  

    E l’étranger faceva comodo: non era poi così male. 

    Gli bastò sterminare il mostro alato che poneva quesiti, infantili, per sua stessa ammissione.

    Insomma, Giocasta non andò troppo per il sottile. 

    Dite che vi fu una pestilenza a portare a galla il segreto? 

    Dopo tutti quegli anni?!!?

    Il morbo, ben più che tardivo, a Tebe fu un pretesto creato ad arte laddove si intrecciano i destini.

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