A volte mi chiedo quali erano i volti, le voci, le fattezze di Laura o Beatrice. Ma in fondo cosa importa? A volte mi chiedo la stessa cosa per le muse non solo dei poeti, ma anche dei cantautori e più in generale dei cantanti. Chi era veramente la “Anna di Francia” di Claudio Lolli per esempio? Lolli ha amato quella ragazza negli anni ’70. Adesso lui è morto. Lei come ha vissuto? È ancora viva? Oppure chi era la dolce Agnese di Ivan Graziani? Dietro a ogni poesia, dietro a ogni canzone d’amore c’è la storia di una donna o di un uomo. Chiedersi chi fossero le muse e che vita abbiano vissuto significa perdersi in pensieri metafisici. Saperlo probabilmente non renderebbe giustizia alle muse né ai poeti. Potremmo chiederci se davvero ne valeva la pena di provare un sentimento così nobile per questa o quella donna, in cui non percepiamo nessuna qualità interiore né estetica. Potremmo chiederci cosa ci trovassero Dante o Petrarca in quelle donne. Potremmo rimanere esterrefatti, sbigottiti, delusi. Talvolta un’infatuazione nasce da un’intesa, da una simpatia, addirittura dall’atmosfera di una sera che si crea tra due persone. In fondo per l’amore si possono anche trovare parole, ma forse l’amore non ha bisogno di parole e nemmeno lo si può spiegare compiutamente a parole. Il tempo passa presto. La bellezza cambia in base ai gusti personali, all’epoca, alla cultura di appartenenza. Eppure ognuno ama, ognuno crea un mito della persona amata e naturalmente nessuno saprà mai quanto e come avrà mitizzato il suo oggetto d’amore perché una caratteristica del pensiero selvaggio è quella di non saper distinguere l’interpretazione dall’osservazione (Claude Levi-Strauss, Il pensiero selvaggio, il Saggiatore, Milano 2003, pagg. 243-244). La curiosità dei letterati e del pubblico vuole che, prima o poi, si venga a sapere le identità delle muse. Non sempre sono rose e fiori. Non sempre queste muse godono di buona fama. Antonio Delfini per esempio si è vendicato con un puro canzoniere del disamore di una donna che lo aveva rifiutato e questa è passata alla storia come una poco di buono. La bellezza poi fa presto a sfiorire. Dove era la bellezza? Era nella musa oppure unicamente negli occhi del poeta? Tutto questo non ha importanza. Importante è che oggi qualcuno/a scriva ancora dignitosamente e onestamente d’amore. Di tentativi ancora oggi ne vengono fatti a iosa. È così spontaneo, naturale, genuino scrivere d’amore durante l’adolescenza o la giovinezza. Ma i diari, le effemeridi di poco o nessun conto sono una miriade, i canzonieri d’amore di valore sono pochissimi, si contano sulle dita delle mani. Pochissimi sanno fare poesia d’amore perché pochissimi sanno parlare d’amore, cioè sanno trattare questo argomento senza retorica, senza sentimentalismo, senza sdilinquimento, senza mitizzare e idealizzare la persona amata. Un altro problema non di poco conto è avere qualcosa d’originale e di nuovo da dire su un sentimento eterno come l’umanità, connaturato all’umanità. Infatti tutti dicono di aver provato l’amore, di aver sofferto per amore. Addirittura le persone più anaffettive o che commettono malvagità secondo le loro confessioni, secondo la mentalità comune e il parere degli esperti sono diventati tali o hanno commesso atrocità per mancanza d’amore o perché sono stati rifiutati in amore. La privazione d’amore, primo tra tutti quello materno per la psicologia dell’età evolutiva, è una delle possibili spiegazioni del disagio esistenziale e della malvagità umana. Pochi sanno ridere dell’amore. Quasi nessuno sa ironizzare, mentre lo prova, sul suo amore. L’Aretino e Boccaccio ridono del sesso. Si può ironizzare sull’amore profano. Forse uno dei pochi è Gozzano, che descrive il suo alter ego Totò Merumeni e la sua cuoca diciottenne. Tranne rarissime eccezioni pochissimi poeti riescono veramente a trattare l’amore con distacco, con distanza. I poeti soffrono tantissimo per amore. L’amore dura poco ma è travolgente, totalizzante, per quanto effimero. Una grande poetessa come la Szymborska scrive che molti invidiano la felicità degli innamorati, pensando all’amore ricambiato sia come ingiustizia (perché non dovuto al merito ma solo alla fortuna) che come “insulto” al grigiore esistenziale altrui. Alla radice di tutto però c’è l’assenza d’amore. Ma anche alla fine di tutto forse c’è l’amore. Dante chiude la sua Commedia con il verso “l’amore che muove il cielo e le altre stelle”. Gli esseri umani non sono fatti per la solitudine perché non sono perfetti. Solo Dio che è perfetto può essere solo; nella sua solitudine c’è la perfezione. Ma gli uomini non sanno bastare a sé stessi. Devono dare e ricevere, a costo di farsi più del male che del bene. Talvolta dopo un amore che lascia strascichi e dolore alcuni si chiedono se ne valesse veramente la pena, visto e considerato che da molti rifiuti o addii non scaturiscono fama e gloria eterna ma solo solitudine feroce, guai economici e sofferenza interiore. Forse spesso le responsabilità e le colpe sono da distribuire equamente, ma durante la relazione c’è sempre qualcuno che comanda e dopo la relazione c’è chi soffre molto di più e chi soffre molto di meno, chi ci rimette molto di più e chi molto di meno. Questa è la dimostrazione che non solo nel bene, come scriveva Leopardi, il Fato ha generato Amore e Morte come fratelli, in quanto il primo grande dispensatore di piacere e la seconda come liberatrice degli affanni terreni, ma anche e soprattutto nel male, nel dolore. Nonostante tutto ciò abbiamo bisogno da giovani soprattutto di parlare e scrivere d’amore, di condividere con gli altri i nostri sentimenti, così come abbiamo bisogno di ritrovarci nelle parole ormai immortali dei poeti. In definitiva i poeti, le muse, le lingue muoiono, ma si può fare parafrasi, traduzioni e provare le stesse loro identiche emozioni, anche se non tutto l’amore degli altri possiamo capire e neanche gli altri possono capire tutto del nostro amore.