Forse quel che resta oggi della maturità sono degli ossi seppia sulla spiaggia, tanto per citare Montale. Forse quel che resta oggi a me è solo aridità e niente altro. I miei pensieri, le mie ideuzze sono solo residui, scarti di lavorazione di quel che rimane della mia materia grigia. Succede che qui nel mio cuore e nella mia testa molto è rivedibile. Uno un giorno pensa di essere approdato a una piccola certezza, a una piccola verità, magari a una certezza, a una verità tascabile. Se la tiene stretta, la coltiva, pensa di aver fatto chissà quale scoperta, magari pensa di accrescere o di poterla fare fruttare. Poi il giorno dopo giunge la smentita: è la vita stessa che ci smentisce. I genitori invecchiano. Il lavoro manca. Il precariato è onnicomprensivo; è anche esistenziale. Accade che non sono più capace di innamorarmi. Accade che non provo più meraviglia, non mi stupisco più di niente. Non mi piacciono le novità e poi quando si verificano di solito sono negative. Accade che ultimamente tra amici ci ritroviamo quasi sempre a dei funerali; non abbiamo mai il modo né il tempo di ritrovarci, talvolta neanche la voglia. Succede che siamo sempre più abituati a mentire a noi stessi. È quasi un’abitudine per stare meglio. Succede che ci affezioniamo e ci aggrappiamo con tutte le nostre forze all’unico corrimano che abbiamo, ovvero le nostre piccole certezze. Succede che l’unico album di ricordi delle mie amicizie è solo nella mia memoria. Forse arrivati a una certa età, dopo una grande moria di sogni, bisogna ancora conservare imperterriti la capacità di sognare, come i Dik Dik che hanno sempre sognato la California e non ci sono mai stati o come la Mannoia che ha sognato il cielo d’Irlanda e non è mai stata in Irlanda. Succede così che nella vita aveva ragione Nietzsche quando in “Aurora” scriveva che quelli che danzavano vennero considerati folli da coloro che non sentivano la musica. Bisogna, a costo di apparire folli, cercare di andare oltre, di trascendersi, di non fermarsi mai, di superarsi sempre. Ma anche se la vita mette a dura prova le persone più resistenti è la morte il verdetto finale, anche se per Ungaretti in una sua celebre poesia “la morte si sconta vivendo”, riprendendo il tema leopardiano della morte come liberazione dal dolore e dagli affanni. Quasi ogni sera mi siedo in giardino a guardare il tramonto. Guardo le pale eoliche, la linea dell’orizzonte. Guardo le venature violacee che sembrano dei piccoli sfregi al cielo sgombro di nuvole. Mi accontento della routine. In fondo sto bene di salute, anche se bisogna sempre ricordarsi di una frase nelle prime pagine de “La montagna incantata”, che è grossomodo così: “il paziente dice come si sente, ma è il medico a dire come sta”. Diciamo che per ora non si sono presentati sintomi né avvisaglie di nessuna malattia. Ho una salute di ferro. Non ho mai la febbre. Non mi ammalo mai, nemmeno quando tutti gli altri prendono l’influenza. Inutile stare a chiedersi se ho voluto rimanere solo o se mi hanno lasciato solo. Forse entrambe le cose. Forse c’è stata una concomitanza di cause. Recriminare non serve a niente. Mi arrivano libri di poesia da recensire oppure perché io scriva una nota critica. Lo faccio unicamente per passione. Sono recensioni e note critiche particolari. Io trasgredisco le regole che si sono dati i grandi recensori. Ma la cosa più importante è che in quelle voci poetiche a tratti percepisco della solitudine. Forse scrivere significa rendere partecipe gli altri della propria solitudine. Alcuni potrebbero dire: ti sbagli, molti vogliono comunicare il loro trauma. Ma io non forzerei troppo la mano a rispondere che un trauma è non solo un punto di rottura ma un momento per antonomasia in cui ci si ritrova soli e nessuno ci aiuta. Cantava Venditti in una canzone molto intimista nei primi anni ’70: “Le cose della vita fanno piangere i poeti, ma se non le fermi subito diventano segreti”. L’ascoltavo quando avevo 16 anni e non capivo a pieno la portata e il significato reale di questa canzone. La trovavo un poco oscura, un poco criptica. Mi ricordo ancora un filmato d’epoca della RAI: Venditti tutto impegnato che suona il piano con capelli e barba lunghe. Più tardi avrei capito che con quella canzone che parlava di amore, incomprensione e solitudine Venditti sfidava la sua generazione, che voleva che a quei tempi si trattasse unicamente di politica. Anche il privato era politico allora. Poi Venditti ha scelto più tardi la strada del nazionalpopolare, della semplificazione a tutti i costi, del voler essere commerciale, ma forse sentiva nel suo intimo in questo modo di andare incontro alle persone. Oggi mi sembra di capirla molto di più quella canzone. Mi sembra che sia un abito che mi sia stato cucito addosso. Mi sembra che sia una delle canzoni per il testo e per l’atmosfera creata che più rappresentano la mia vita, anche se Venditti si rivolgeva a una donna amata e io invece sono solo. Molti anni fa sempre Venditti scriveva in un’altra sua canzone: “La solitudine è una strana compagna/ Lei ti sorride come una puttana/ E poi ti lascia senza il fiato per poter gridare”. In questi versi esprime in modo significativo e poetico pro e contro della solitudine, illusione e delusione dell’essere soli. Venditti allude al rapporto impersonale per eccellenza, quello con una prostituta, che può togliere le voglie, essere un modo estremo per rompere la solitudine, ma è anche una “pubblica moglie” che fa sesso frettolosamente con tutti: tutto ciò è testimoniato dal fatto che le prostitute fanno sesso ma preservano una parte della loro intimità, non baciando in bocca neanche i clienti più incoscienti e più focosi. Ma in fondo cosa importa della solitudine e dell’amore? Un tempo scrivevo poesie rivolgendomi a una figura femminile che non esisteva in quel presente. Il mio era un tu imprecisato. Ma a chi importa? Morirò e a nessuno importerà niente delle mie parole scritte. Le ragazze e le donne di cui mi sono innamorato moriranno e ai posteri non interesserà in alcun modo la loro bellezza o il loro fascino. Ci sono dei versi bellissimi e terribili di Alda Merini della sua poesia “Per Milano”: “Milano dagli irti colli/ che ha veduto qui/ crescere il mio amore/ che ora è defunto”. Per citare Zanzotto, capovolgendolo, non siamo fatti per “durare tra le albe” perché forse non c’è niente che “farà verità della nostra menzogna”.