Ero al bar della stazione anni fa. Era un dopocena. Ero ormai ubriaco. Stavo tracannando l’ennesimo superalcolico sotto la pensilina. Parlavo con dei ragazzi conosciuti lì, occasionali compagni di sbronza. Arriva a un certo punto un tipo alto e magro, vestito bene. Tutti lo trattano con grande rispetto. È un giornalista. Ci mettiamo a parlare. Noto che mi tratta con aria di superiorità. Mi dice che da anni sta scrivendo poesie, in parte rifacendosi a Pessoa. Ma mi dice che io non posso capire perché è sicuro che non sappia chi sia Pessoa. Lo dà per scontato perché io sono un piccolo commerciante e in quel momento per giunta ubriaco. Lui è un giornalista. Lui scrive per professione. Non scribacchia come me per diletto o per sfogo. Lui ha un ruolo sociale, una funzione sociale definita. Lui guadagna con ciò che scrive e molti lo ammirano. Io sono solo un fallito. Mi guarda spesso di sottecchi. Io gli sussurro piano che la prossima volta che cita Pessoa dovrebbe ricordarsi che era un alcolizzato che pubblicò in tutta la vita solo su qualche rivista. Niente di più. Lui mi guarda allibito. Forse non sapeva di questo particolare della sua vita. Io odio la critica biografica ma per capire un minimo la poetica bisogna sapere qualche cosa sulla vita del poeta. Forse è rimasto stupito che io sapessi queste cose. Lo saluto e vado a farmi un altro superalcolico. Poi non l’ho più visto. Ho controllato su Facebook e so che è ancora vivo. Le nostre due vite sono state come dei fili elettrici che sono entrati in contatto casualmente. Poi ognuno ha ripreso il suo cammino: io ho ripreso la mia solitudine, pur avendo smesso di bere, lui invece ha ripreso a fottersi le praticanti giornaliste o giovani collaboratrici, che più capaci di scrivere sono capaci di glorificare il cazzo e lo scrivo come pura constatazione di fatto, senza alcun giudizio moralistico. Delle sue poesie stile Pessoa non ho più sentito parlare. Questo è quanto.