in

Due parole soltanto sulla morte…

C’è una poesia molto breve di Auden, appartenente agli “Shorts”, che è davvero significativa e eloquente riguardo alla morte: “Riflesse nello specchio del bancone/ durante l’ora della colazione,/ una fila di facce cittadine,/ mute, di mezza età,  ad aspettare/ una morte che non sia mai la loro”. C’è chi legge il giornale nelle grandi città per leggere gli annunci funebri e vedere se è morto qualcuno che conosceva. Nei piccoli paesi e nelle cittadine le persone si limitano a guardare gli annunci affissi sui muri.  In ogni caso le persone aspettano la morte altrui e scongiurano la loro come quella dei loro cari.  In “Malagueña” Garcia Lorca scrive: “La morte entra ed esce dalla taverna”. Emily Dickinson in una sua lirica trattava della morte, che era andata malauguratamente nella casa dei vicini. Se ci fermiamo all’apparenza la morte viene a fare visita di tanto in ogni casa, spesso a distanza di anni. Seneca diversamente pensava che noi moriamo un poco ogni giorno. Però la morte resta sottotraccia, il morire si manifesta, quasi si concretizza, solo nell’atto finale o almeno così noi lo percepiamo oppure non vogliamo pensarci.  Succede che la morte tocchi o si posi su una persona e allora questo segni profondamente la vita dei suoi cari. Vivere è aspettare il proprio turno da questo punto di vista, aspettare la propria ora. Se venisse bloccato il processo di invecchiamento, se la medicina sconfiggesse ogni malattia, se fossimo davvero  immortali molto probabilmente non esisterebbero l’etica, la religione, la morale. La morte ci serve anche da monito: non possiamo fare quello che vogliamo perché un giorno renderemo la nostra anima a Dio. Cristianamente il corpo, l’anima, la stessa vita non sono nostri. La fede è la credenza che più di altre può determinare un cambiamento profondo di sé stessi e delle proprie azioni, ammesso e non concesso che ci sia coerenza tra fede e comportamento. Si tratta di salvarsi cristianamente l’anima, presupponendo che questa sia immortale. C’è chi non crede all’immortalità dell’anima, ma a quella del genere umano e allora lascia nel mondo dei figli, che perpetuano il suo DNA e con essa – si spera – la specie umana. C’è chi considera le proprie opere d’ingegno nel mondo delle sue figlie e ripone fiducia nell’immortalità delle sue opere e nell’immortalità dell’umanità (ma siamo sicuri che essa non si autodistruggerà?). Ci sono molte ipotesi, più o meno accreditate a riguardo, e non c’è nessuna certezza. Si può anche legittimamente sospendere ogni giudizio. Le proprie opere d’ingegno sono sempre nulla di fronte alla morte. Per quanto riguarda i traguardi materiali raggiunti, per dirla alla Verga, la roba uno non se la porta nella tomba. C’è chi sostiene che una persona sia viva fino a quando è vivo il suo ricordo. Montale scriveva che forse siamo sempre gli stessi (e quindi forse ci reincarniamo) oppure sempre il poeta ligure in una sua famosissima lirica pensava che “forse siamo già tutti morti senza saperlo”. Quello di cui siamo certi è che una delle cose fondamentali che ci distingue dagli animali è proprio il culto dei morti, anche se non dobbiamo essere ipocriti e presenziare a tutti i funerali, ma solo a quelli che ci sentiamo veramente di andare. Andare ai funerali quasi per timbrare il cartellino, come fanno molte “prefiche” postmoderne, è un atto esclusivamente di ipocrisia e convenienza sociale più che di civiltà e vicinanza alla famiglia del/la  defunto/a. Ogni conforto, ogni parola sembra vana di fronte alla morte. Bisogna sempre ponderare e misurare ogni parola sulla morte: mai sproloquiare  perché ogni parola può essere veramente di troppo. Niente sembra avere la meglio sulla chiusura di una bara. Di fronte alla morte, alla sua realtà ci sentiamo tutti impotenti. Travisando Borges, nessuno è qualcuno di fronte alla morte, che è un mistero che ci supera e ci trascende. Di fronte alla morte e a Dio nessuno può dire “lei non sa chi sono io”. Di fronte alla morte non conta niente essere stati nel Who is Who. La morte e Dio conoscono benissimo ognuno di noi, la nostra indole e le nostre azioni.  La domanda che un familiare rivolge al caro estinto è “perché mi hai abbandonato?”, ma spesso la domanda si estende e diventa “Dio mio perché mi hai abbandonato?”, come nel salmo. Ritorneremo a essere polvere.  Mangiamo e da morti saremo mangiati. Ma non può finire tutto così.  Non avrebbe alcun senso. Non può essere tutto qui. Esiste la compresenza tra viventi e morti perché continuamente tocchiamo e siamo toccati dalla polvere. Basta che si alzi il vento in una strada sterrata per avere a che fare fisicamente con i morti. La vita continuamente si rinnova. Fiori sbocciano nei cimiteri; giovani amanti fanno all’amore la notte nei parcheggi dei cimiteri; i  bambini giocano, ignari di tutto, vicini alle tombe. 

Cosa ne pensi?

0 Blops
Blop

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

MIREPOIX

Tra memoria e orrore